La storia di molti e della passione che li unisce comincia qui, in un campetto che forse non ha neanche un nome. Quelli del G-14, che poi è il G-18, quelli che vogliono un campionato d’Europa riservato a loro e magari un campionato italiano non deprezzato dal Chievo, dall’Empoli e dall’Ascoli, quelli che parlano di marketing anche quando dormono: quelli dovrebbero mandare un piccolo cenno di ringraziamento o anche un piccolo vaglia postale o qualche pallone o una serie di maglie (dall’1 all’11, almeno qui) perché la fidelizzazione dell’utente (mi sforzo di parlare come loro) è nata qui.
Una chiamata a testa per scegliere i giocatori
Il campetto forse non ha un nome, ma ha le porte vere. Ed è cintato, e ci sono gli spogliatoi anche per l’arbitro. Non è detto che funzioni l’acqua calda, ma sono dettagli, quello che non ammazza ingrassa. Le porte vere, due pali più una traversa si spera ben fissata, sono il sogno di tutti quelli che giocano a calcio e hanno cominciato per strada, in uno slargo, in un prato, in un cortile o all’oratorio. Il bambino-capitano fa a pari e dispari con l’altro bambino-capitano per formare la squadra, una chiamata a testa fino a che non si esaurisce il numero dei giocatori.
Da bambini si gioca senza l’arbitro
E anche in questo dettaglio ci sarebbe una lezione, a saperla cogliere: la ricerca di un equilibrio, non di una disparità pesante, tra le due squadre. Da bambini si gioca senza arbitro (segno che tutti sono tipi responsabili) e senza traversa. I pali sono due tronchi d’albero o due mucchietti di pietre, o due assicelle piantate nel terreno, se è cedevole, ma anche un cumulo di cartelle. Conviene sempre segnare rasoterra o a mezza altezza, se manca la traversa. E non conviene tirare di punta con le scarpe buone, perché le madri se ne accorgono subito, ma da piccoli è inevitabile colpire di punta per dare più forza al pallone. Il resto (esterno, interno, pieno collo) verrà dopo, se verrà.
“Il pallone e la felicità di un bambino”
Qui non si vuole fare un’apologia del bel tempo che fu (anche se a volte la tentazione è forte), ma semplicemente compiere un piccolo viaggio a ritroso, risalendo la corrente come quegli esploratori che nell’Ottocento volevano scoprire la sorgente dei fiumi africani. E marciavano, e tagliavano varchi nelle foreste, ogni tanto s’imbattevano in tribù ostili. Noi possiamo stare comodi, seduti, viaggiare sull’onda del bianco e nero, andare all’origine di un amore. Una teologa tedesca (una che non c’entra nulla con il calcio), Dorothee Sölle, un giorno disse: “Non sono in grado di spiegare il concetto di felicità a un bambino, ma posso sempre dargli un pallone”.
Il Bar Sport dove il calcio non oscura le altre discipline
Il bambino è attratto da una cosa rotonda che ora rimbalza, ora no, ora si lascia addomesticare, ora sfugge. Non è facile controllarlo, il pallone: spesso finisce contro un vetro, o nel giardino di un tale che urla che alla prossima te lo buca, così impari. Il bambino non sa cos’è la coordinazione motoria e intanto, mentre pensa a quando sarà cresciuto, guarda giocare gli altri: quelli più vecchi di lui, che magari hanno quindici anni e gli dicono: “Sei troppo piccolo per giocare con noi, poi finisce che ti fai male”. E poi quindici anni li ha anche lui, finalmente, e si è già innamorato di una grande squadra, di quelle che si vedono in televisione, oppure della squadra del suo paese, e forse all’inizio non capisce perché parole ridondanti come Eccellenza o Prima Categoria si applichino a campetti così, magari senza nome, con il catenaccio e il lucchetto al cancello d’ingresso. Però ci giocano quelli del suo paese, è normale andarli a vedere e partecipare alle discussioni. In molti paesi c’è un bar che si chiama Bar Sport (variante: Bar degli Sportivi), con un’insegna che fa un po’ tenerezza, un reperto d’archeologia sociale. Non esiste, che si sappia, un Bar Tifo. Al Bar Sport il calcio non ha oscurato le altre discipline, e quindi (ma dipende dagli anni che ha sul groppone) il locale ha vissuto le gesta di Bartali e Coppi, Gimondi e Motta, Bugno e Chiappucci, ha pianto per Pantani, ha discusso di Mazzinghi e Benvenuti, di Agostini e Pasolini, di Ascari e Fangio, di Lauda e Villeneuve.
Nei campi di calcio si semina per il futuro
Nei campi si semina, e anche nei campi di calcio si semina, nel passaggio dalla partita “per gioco” alla partita “vera”. Vera a cominciare dal tempo, dall’impegno scandito, mentre per gioco si giocava finché non faceva buio o finché qualche madre non richiamava, minacciosa, dalla finestra: “Lavarsi prima di cena, è quasi pronta”. Altra musica: c’è l’arbitro, ci sono i guardalinee, ciascuno designato da una squadra, e a pensarci anche questa è una dimostrazione di fiducia. Immaginiamo un derby con un tesserato dell’Inter a correre lungo una riga bianca e un tesserato del Milan lungo l’altra. Fantascienza pura. Ma il calcio minore, il calcio povero, andava e va ancora avanti così. Altra musica, perché c’è il pubblico pagante sugli spalti (parola orrenda e indistruttibile), e ogni Charlie Brown in braghette corte può vedere la ragazzina dai capelli rossi e mostrarle quant’è bravo. Ci sono anche le forze dell’ordine, ecco la novità: un appuntato dei carabinieri o un paio di vigili, casomai scoppiassero tumulti pericolosi. Che non scoppiano quasi mai. Eppure, non ci sono divisioni tra i settori, ci si può muovere liberamente. Forse è proprio per questo che i tifosi stanno tranquilli: non sono in gabbia. Si seminano tante cose, in questi campi: il senso di appartenenza, la disciplina, la responsabilità, il rispetto, il saper vincere e il saper perdere. Sono cose importanti, come saper crossare dal fondo e parare all’incrocio. Su questi campi ci sono giocatori che sognano e giocatori che hanno smesso di sognare. Gli uni vedono un provino per l’Atalanta come il massimo della vita, gli altri sanno che il Grande Treno non fermerà alla loro stazione, è passato il tempo, ma forse hanno ascoltato Giorgio Conte, in un cd intitolato, vedi un po’, Zona Cesarini: a una certa età non conta chi vince, conta che si continui a giocare. Le statistiche federali ci dicono che in Italia circa cinquecentomila bambini e ragazzi giocano regolarmente, ma solo due su mille approdano al professionismo.
Un omaggio al calcio d’inizio del calcio
Tra i campi dei professionisti e questi campetti la differenza è fatta da tanti più: più soldi, più tv, più giornali, più stress, più tifosi, più incidenti, più medicine, più procuratori, più moviole, più sponsor. E panchine più lunghe, terreni più curati (ma a volte pessimi), allenatori più severi, interviste più frequenti. Però questi campetti rappresentano il calcio d’inizio del calcio, e chi ci è passato se li ricorda, se non altro per misurare la strada, tanta o poca, che ha fatto. Pelé e Garrincha non sono partiti da campi diversi da questi, Riva e Rivera nemmeno. Come esiste in molti Paesi il monumento al Milite Ignoto (un caduto senza nome che li rappresenta tutti), così da qualche parte dovrebbe esistere non dico un monumento, ma una testimonianza nei confronti del Campo Ignoto. Non altro vorrebbe essere considerato questo libro: un omaggio alla sorgente del fiume, al calcio d’inizio del calcio