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Giorgio Martino: “Ho visto Maradona segnare il gol del secolo, Merckx piangere per il doping. Alì e Frazier massacrarsi sul ring: ecco perché la Rai li censurò”

Lo storico telecronista si racconta: gli inizi con colleghi come Pizzul e Bruno Vespa, l’incontro con i grandi campioni del calcio, del ciclismo e della boxe, ma anche il ricordo di un’Italia che non c’è più

Il gol di Maradona, il più bello del secolo scorso per la Fifa. Il match di Manila tra Ali e Frazier, splendido e brutale. Le lacrime di Merckx nel letto della sua stanza d’albergo, dopo la positività al doping. Tre capitoli della storia dello sport, un uomo solo davanti al microfono: Giorgio Martino.

Romano, classe 1942, lo puoi scovare (è il quinto da destra, in piedi) nella foto dei vincitori del primo concorso per radiotelecronisti indetto nel 1968 dall’allora direttore generale della Rai, Ettore Bernabei: 1200 i giovani selezionati, cento arrivarono agli scritti, ventitré li superarono. In primo piano, a sinistra, Bruno Vespa. Chiude l’immagine, a destra, Bruno Pizzul. Tra loro Paolo Frajese, Mario Giobbe, Angela Buttiglione, Claudio Angelini. Claudio Ferretti l’unico in maglione e senza cravatta.

“Sono diventato giornalista grazie a suo padre Mario, che in radio nel 1949 disse una frase ora famosissima: ‘Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi’. Sentendo quelle parole pensai: ‘Voglio fare questo mestiere’. A casa c’era una sola radio e non era nella stanza in cui si mangiava. Ma io cenavo da solo perché alle 20.20, dopo Radio Sera, volevo ascoltare il programma speciale sul Giro d’Italia”.

Una passione precoce.

“Abitavo vicino all’Olimpico, ricordo il fiume di persone che andava allo stadio il giorno dell’inaugurazione, nel 1953”.

Grazie al suo lavoro è stato testimone di eventi indimenticabili, come le due reti di Maradona in Argentina-Inghilterra del 1986, quarto di finale mondiale a Città del Messico.

“Ho riascoltato la telecronaca e mi sono un po’ compiaciuto con me stesso: sul primo gol ho visto subito il tocco di mano, tanto da citare un gesto simile di Silvio Piola in un’Italia-Inghilterra del 1939. Dal vivo abbiamo capito immediatamente la grandezza del secondo gol, quello slalom tra gli inglesi che ancora non capisco perché non abbiano commesso fallo, come fossero ipnotizzati dalla bravura di Diego. Meglio così, eh, altrimenti non staremmo qui a parlarne. Noi giornalisti eravamo molto in alto, nel terzo anello dello stadio Azteca, ma la visione era perfetta ed eravamo totalmente immersi in un’atmosfera particolare: non era solo una partita di calcio, gli argentini la vivevano come una rivincita della guerra delle Falkland persa quattro anni prima”.

La storia dello sport può passare da uno stadio da 80mila spettatori, in una megalopoli messicana, ma anche da una piccola camera d’albergo di Albissola, in Liguria.

“Nel 1969 seguivo il Giro d’Italia, ero nella squadra del Processo alla tappa di Sergio Zavoli. Il 2 giugno Eddy Merckx fu espulso perché positivo al doping. Nella sua stanza entrammo con l’operatore, il suo assistente, il fonico, l’uomo delle luci: così tanta gente che io stesso ne rimasi stupito. Merckx sdraiato sul letto, la canottiera bianca e le bretelle scure, piangeva e negava tutto, giurava di essere innocente”.

Lei invece non era sul posto, a bordo ring, per la terza sfida tra Muhammad Ali e Joe Frazier, che si affrontarono a Manila il primo ottobre 1975.

“Comandavano le tv americane, che fecero fissare il match alle 10 di mattina delle Filippine, quando negli Stati Uniti era sera e in Italia le 4 di notte. Io ero negli studi di Roma e mi ritrovai a commentare un match bellissimo ma tremendo, di una violenza inaudita: tutti e due dissero di essere arrivati alle soglie della morte e io credo che ci sarebbe stata davvero una tragedia se l’allenatore di Frazier, Eddie Futch, non avesse fermato l’incontro prima dell’ultimo round. Sono convinto che tutti i pugni presi quel giorno siano stati una delle cause del morbo di Parkinson che fu poi diagnosticato ad Ali”.

Quella notte tra un mercoledì e un giovedì nessuno nel nostro Paese vide la sfida in diretta.

“La Rai non la trasmise perché non considerava etico che un italiano rimanesse sveglio a quell’ora per vedere un match di pugilato, quando la mattina dopo doveva andare al lavoro. Oggi è difficile spiegare la mentalità di allora. Era un altro mondo”.

Anche per i giornalisti.

“Mi sono risentito al microfono durante gli 800 stile libero femminili che Novella Calligaris vinse con il record del mondo nei primi Mondiali di nuoto, a Belgrado, nel 1973. Allora non era frequente che un nostro atleta salisse su un podio olimpico, mondiale o anche europeo. Ed era ancor più raro che accadesse a una donna. Ecco, ero molto, molto compassato, fin troppo sobrio, pensando a quello che succede oggi, tra urla e strepiti. Ma era lo stile Rai: il momento di rottura è arrivato con Giampiero Galeazzi e le sue telecronache degli Abbagnale”.

Facile immaginare i suoi giudizi sul presente…

“Oggi al telecronista, soprattutto nelle pay tv, viene chiesto di diventare un imbonitore, che deve invogliare il suo pubblico a non cambiare canale: ‘Caro cliente, tu hai pagato e io ti do qualcosa di particolare. Resta su questa rete, conferma il tuo abbonamento, domani sarà ancora meglio’. E poi ci sono queste continue sovrapposizioni. In quel corso del 1968 ci insegnarono a differenziarci dalla radio, dove – ci dicevano – ‘il cronista non deve mai stare zitto, perché sennò dopo due secondi di silenzio chi ascolta pensa che si sia persa la frequenza’. In tv a parlare dovrebbero essere le immagini, perché lo spettacolo è la partita, non il contorno. Oggi invece, quando un giocatore prende il pallone, magari ti raccontano che ha esordito a 15 anni, che poi si è infortunato ed è stato ceduto in prestito. E nel frattempo l’azione si è già spostata da un’altra parte. Come se non bastasse, a colmare i vuoti arrivano gli interventi dell’opinionista e del collega a bordo campo. Ma quando ci sono troppi galli a cantare non si fa mai giorno”.

Partner perfetti eravate lei e Gianfranco De Laurentiis. Insieme avete condotto, dal 1977 al 1994, EuroGol, la prima trasmissione dedicata alle coppe europee: al giovedì sera avete fatto entrare nelle case di milioni di italiani giocatori cechi, polacchi e scozzesi di cui prima non conoscevano neanche l’esistenza.

“L’idea mi venne quando raccontai agli amici che in Rai, grazie ai programmi di scambio dell’Eurovisione, vedevamo in bassa frequenza le immagini delle partite di tutta Europa: ‘E perché non le fai vedere anche a noi?’. Lo proposi a Maurizio Barendson – l’uomo che inventò 90° minuto, il più bravo giornalista sportivo che abbia mai conosciuto – e iniziammo questa avventura con De Laurentiis. Oggi è una banalità conoscere i calciatori non solo del Real Madrid ma anche delle squadre arabe. Allora, invece, non si sapeva praticamente nulla: anche i giornali sportivi dedicavano qualche riga ai campionati stranieri, a volte mettevano i risultati e non di più. Ci facemmo aiutare da Stefano Germano del Guerin Sportivo, il settimanale che dedicava un po’ più di spazio al calcio internazionale, e partimmo senza rete. Un lavoraccio capire chi caspita avesse segnato quel gol in quella squadra bulgara piena di giocatori dai cognomi impronunciabili, con filmati montati a pochi secondi dalla messa in onda. Ma l’adrenalina ci aiutava: sapevamo di essere pionieri, per questo considero EuroGol il fiore all’occhiello della mia carriera”.

Più della prima telecronaca di una partita di calcio italiana trasmessa a colori, Genoa-Torino del 6 febbraio 1977?

“Mi toccò commentare quell’incontro per semplice turnazione. E comunque la Rai possedeva la tecnologia del colore già da anni ma non la utilizzava perché altrimenti gli italiani avrebbero sperperato il loro denaro per acquistare nuovi e costosi televisori. Come ho detto, era un altro mondo. Quello in cui i programmi precedenti non davano il risultato della partita di cui la tv avrebbe trasmesso in differita il secondo tempo alle 19”.

A EuroGol De Laurentiis era juventino, lei romanista.

“La sobrietà del linguaggio si trasferiva anche nei nostri rapporti umani. E comunque diffido di quelli che dicono ‘io non sono tifoso’, non sono credibili. Allo sport ti avvicini per passione: all’automobilismo per amore per la Ferrari, al ciclismo per Moser o Pantani, al calcio per certi colori o altri. Il presidente Dino Viola mi diceva: ‘Io sono toscano di Aulla e la mia squadra del cuore l’ho scelta, quindi sono più romanista di te. Facile tifare per la Roma se sei nato qui’ “.

Dal 2000 al 2008 lei è stato direttore di Roma Channel.

“E ho potuto esaudire un sogno. Ero vicino a Nando Martellini alla fine di Italia-Germania del 1982 e ho sempre portato con me le sue parole: ‘Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo’. Il 17 giugno del 2001, appena conclusa la partita col Parma che consegnò alla Roma il suo terzo scudetto, ho potuto dire anche io tre volte al microfono: ‘Campioni’ ”.

Chi oggi ha vent’anni la riconosce come attore, interprete di se stesso in un film di culto, L’allenatore nel pallone. Si avvicina con microfono e telecamera a Oronzo Canà/Lino Banfi, che le dice: ‘Giorgio Martino, non cominciamo, perché non posso fare dichiarazioni’. Lei invece lo ignora e si dirige verso Sergio Santarini, ex giocatore di Inter e Roma.

“Una simpatica esperienza: girammo all’Hotel Villa Pamphili di Roma, fingendo che fosse il Gallia, sede milanese del calcio-mercato. Fu un successo inaspettato. E poi ci davano mezzo milione (di lire) al giorno”. Un altro mondo, appunto.

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