TORINO – Giovanni Galli c’era il quel 21 agosto 1993 a Washington, quando Milan e Torino (lui era il portiere granata) giocarono la prima Supercoppa italiana all’estero, anticipando di un bel pezzo quella che sarebbe diventata una consuetudine. Adesso guarda con perplessità al sì della Uefa al trasbordo di Milan-Como a Perth, dall’altra parte del mondo: «Non pensavo che alla fine l’avrebbero fatto. Sinceramente, è una cosa che mi sorprende».
E la convince?
«Mah, boh, direi proprio di no. Già giocare la Supercoppa in Arabia non ha molto senso, figurarsi una partita di campionato in Australia. L’estrema sintesi è che la società cerca ogni modo per avere più soldi in tasca, però…».
Però?
«Però non si pensa mai alle conseguenze, alle fatiche cui vengono sottoposti i giocatori, alla svalutazione della qualità e di conseguenza dello spettacolo. Già si gioca troppo, in più si aggiungono i disagi di un volo così lungo e del fuso orario. Nel cuore della stagione, poi. Mah».
Pensa che giocatori e allenatori saranno contenti della maxi trasferta?
«No, perché giocare tanto non significa guadagnare di più ma di sicuro significa giocare peggio. Guardate cosa sta succedendo nel tennis: si bada solo agli affari e non si tutela l’incolumità degli atleti, che si allenano poco e giocano troppo. Voglio provare ad accontentarmi dell’unico aspetto positivo della faccenda».
Vale a dire?
«Prendiamola come un’occasione per farci pubblicità, per far conoscere il nostro campionato a nuovi mercati, e magari per dare la possibilità ai nostri connazionali che vivono all’estero di vedere per una volta la serie A dal vivo. Il Milan, perlomeno, qualche tifoso all’estero ce l’ha, ma sarà comunque straniante giocare in uno stadio non tuo, davanti a un pubblico non tuo, lontano dalle solite abitudini».
Fu così anche per voi a Washington?
«Era diverso, perché in palio c’era un trofeo, e questo ti induce a concentrarti sull’aspetto agonistico. E poi eravamo ad agosto, lontani dall’inizio del campionato e in una nazione che stava cercando di diffondere il soccer in maniera diversa, perché fin lì avevano puntato solo sui campioni a fine di carriera. E poi all’epoca il calcio italiano era il migliore al mondo, non come adesso che siamo il settimo od ottavo movimento».
Ha fatto bene Ceferin a precisare che si tratta di un’eccezione che non dovrà ripetersi?
«Certamente, ma ho i miei dubbi che rimarrà un episodio isolato: quando concedi un’opportunità per derogare, arriverà sicuramente qualcuno con una buona motivazione per rifarlo. Dopo italiani e spagnoli, perché inglesi, francesi e tedeschi non dovrebbero fare lo stesso?».