Ascoltando Gabriele Gravina la sensazione da giorno della marmotta è stata potente: il calcio italiano rivive da tempo in loop gli stessi disastri — con la felice ma sempre meno spiegabile eccezione del 2021 — e il presidente federale li affronta senza nemmeno lasciar balenare un gesto forte, col distacco di chi sa di non avere un’alternativa. Se Claudio Lotito e i suoi alleati, i club medio-piccoli, riuscissero a defenestrarlo, come da lunga guerra un tempo sotterranea e oggi palese, il travaso di potere a favore delle società avverrebbe infatti a scapito della Nazionale, già danneggiata per anni dall’invasione di stranieri a basso costo fiscale. Solo per questo Gravina — non inviso ai grandi club, che gli chiedono la peraltro opportuna riduzione della Serie A a 18 squadre — sembra insostituibile, sempre che si creda in un sistema fondato sull’equilibrio tra i due interessi. E chi valuta che questo sistema sia giunto al punto di rottura, e che il calcio delle rappresentative debba finire divorato da quello dei club, dovrebbe spiegare perché questo sia un problema soltanto in Italia, mentre la Spagna — dove pure le polemiche non mancano — riesce a esprimere contemporaneamente il Real Madrid e una nazionale competitiva e divertente.
I meriti di Gravina e i suoi limiti
La verità è che in questi anni è mancata una capacità negoziale, soffocata dai troppi personalismi: le società hanno ragione nel sottolineare che il peso della Lega di A in consiglio federale (12%) è risibile. Gravina è stato bravo a reggere il timone nella tempesta del Covid, dove ebbe a che fare con un ministro (Spadafora) per cui il calcio era fumo negli occhi: ma si sarebbe dovuto giocare quel credito riformando la governance in armonia con i club, nella cui assemblea i grandi avrebbero dovuto risolvere preliminarmente la questione delle 18 squadre non per arrogante diktat, ma aprendo a qualche forma di compensazione per chi vedrebbe accentuata l’altalena tra A e B. E come il sindacato dei giocatori ha poi fatto presente, le date liberate andrebbero utilizzate per le nazionali e/o per riposare, non per altri tornei con i quali la Fifa sfoga la sua gelosia per l’Uefa.
Spalletti e la differenza tra allenatore e commissario tecnico
Se la big picture politica aiuta a spiegare il ripetersi dei fallimenti, non assolve certo la gestione tecnica di Luciano Spalletti, che ha presentato non tanto gli alibi quanto le circostanze attenuanti di questo naufragio. Perché l’analisi abbia un senso occorre sgombrare il campo dalla necessità di veder rotolare delle teste: avremmo apprezzato il gesto delle dimissioni come lo avremmo apprezzato da Mancini dopo il flop mondiale — tanto Gravina le avrebbe respinte in entrambi i casi — non è venuto e allora vogliamo immaginare che questa esperienza possa avere insegnato molto a Spalletti delle differenze tra il mestiere di allenatore e quello di commissario tecnico, la matrice del ko. L’insopportabile pesantezza che ha caricato sulle spalle di giocatori già psicologicamente fragili — Barella e Dimarco gli unici leader nei club — ha finito per schiantarli: troppe lezioni di vita, troppi richiami ai tifosi, troppo giogo addosso lì dove l’ultimo bel risultato era chiaramente dovuto a una leggerezza cui Luca Vialli seppe e volle aggiungere con la sua terribile vicenda personale quella nota drammatica — una sola, ma fortissima — che finì di ispirare l’Italia di Mancini.
Di Lorenzo, l’ancoraggio del ct
Spalletti è un uomo complesso che ti arriva col tempo e la quotidianità, è la goccia che scava la pietra come dimostra una carriera in cui è sempre andato in crescendo, fino al capolavoro di Napoli. La pervicacia con la quale ha proposto il povero Di Lorenzo nasce dal fatto che era l’unico che lo capiva compiutamente; la battuta sul “figlio” era una battuta, gli si è ritorta contro e amen, ma è chiaro che a un certo punto gli sono mancati gli ancoraggi, ed è andato a cercarli dove poteva trovarli. Nel suo capitano di Napoli e nei debuttanti, da Calafiori a Fagioli, sul quale occorrerebbe mettersi d’accordo. La squalifica è stata scontata: possiamo considerare pagato il suo debito — da settembre il discorso varrà anche per Tonali — o lo stigma dovrà accompagnarlo per sempre?
L’Italia non sprechi più il grande lavoro a livello giovanile
Non è stata soltanto l’eliminazione con la Svizzera, andando a memoria la peggiore prestazione azzurra degli ultimi 25 anni. È stato l’intero Europeo nel quale “gli eroi e i giganti” sono andati sotto quattro volte su quattro, nel quale la Spagna ci ha risparmiato una goleada, nel quale il miracolo di Zaccagni al 98’ ci ha evitato — senza farci un piacere — l’uscita ai gironi. Nel quale gli azzurri sabato hanno atteso il fischio finale di Marciniak come una liberazione, perché non vedevano l’ora di uscire da quell’incubo. Di tornare a casa. E quindi resti pure Spalletti, non arretriamo di un metro nella considerazione delle sue qualità da allenatore: ma ci aggiunga l’umiltà e il senso della misura che ogni bravo ct deve usare visto il poco tempo a disposizione. Se poi la commissione di esperti dei club citata da Gravina (Marotta, Giuntoli, Sartori e altri) sarà capace, volando alto per una volta, di accorciare il salto che c’è fra le Primavera e le prime squadre, il grandissimo lavoro del coordinatore delle giovanili azzurre Maurizio Viscidi — non si contano titoli e finali — potrà finalmente rivelarsi utile. Sarebbe ora.