Quarant’anni, una vita. “Ed è proprio così, l’Heysel non è stato solo un terribile episodio: è la mia vita”.
Carlo Ricci ha 82 anni, ed è un medico pediatra in pensione. Vive a Tivoli, da dove a fine maggio 1985 partì per Bruxelles con il figlio Fabio, che allora aveva 15 anni, con il cognato e due nipoti. Vennero travolti nell’abisso, pensarono di essere morti e che lo fossero i loro cari, si smarrirono nell’apocalisse dalla quale riemersero come per miracolo, si salvarono e tornarono casa. Ora Fabio non c’è più: un mieloma se l’è portato via, sei mesi fa. Il padre ricorda quel giorno in Belgio, e i giorni che riempirono i quarant’anni a venire. Quattro decenni mai finiti.
“Una porticina larga non più di 80 centimetri”
“La cosa triste è che non sia servito a niente: il calcio italiano continua a non avere cultura sportiva, a insultare i morti di Bruxelles come quelli di Superga, dentro stadi quasi sempre vecchi, pericolosi e scomodi. La mia pena è pensare che tutto scorra invano, e che il passato non insegni nulla. Dell’Heysel comincia a perdersi la memoria: ancora qualche anno e sarà soltanto una notte sfortunata e tragica. Invece fu una tragedia causata da una serie incredibile di errori, leggerezze, incompetenza e colpe a svariati livelli”.
“Io, Fabio e gli altri arrivammo a Bruxelles il giorno stesso della finale, e ci portarono subito allo stadio in pullman. Saranno state le tre del pomeriggio. Per un po’ ci aggirammo attorno all’impianto, tutto era tranquillo. Poi ci fecero entrare attraverso una porticina larga non più di 80 centimetri, noi e gli inglesi insieme. In tanti di loro avevano sotto il braccio cassette di birra, almeno una ventina di lattine a testa. La cosa ci sembrò parecchio strana”.
“Non sapevamo che il settore Z fosse misto”
“I biglietti li avevamo trovati mediante un’agenzia di viaggi romana: non sapevamo che il settore Z fosse misto, e non la curva bianconera che stava invece dall’altra parte dello stadio. Prima del riscaldamento, un calciatore del Liverpool venne sotto la gradinata a incitare la folla, aveva gli occhi spiritati e feroci, e i capelli rossi”.
“Ci fu una partitella di ragazzini, e verso le sette di sera gli hooligans cominciarono a lanciare lattine vuote verso di noi. Poi, anche pezzi di cemento. Ci spostammo verso destra, in massa, la curva ondeggiò e gli inglesi ci assaltarono. Ero ancora vicino a Fabio. Corremmo, per quel poco che si poteva. Poi, ogni cosa si rovesciò”.
“Mi ritrovai come sospeso per aria, ma schiacciato dagli altri corpi. Mi spostai, centimetro dopo centimetro, respirando con enorme fatica. Avevo il gomito di un’altra persona contro la trachea, ed ero sicuro di morire: sono un medico, so come funziona. Poi, non riesco a dire come, mi ritrovai a strisciare sugli altri corpi, passando sui vivi e sui morti, però non capivo chi lo fosse e chi no. Scavalcai quasi per forza d’inerzia la massa umana, e mi ritrovai sul prato. Mi spostai verso il centro del campo, e mi dissi: dov’è Fabio? Lo avevo perso, e con lui tutti gli altri”.
“L’abbraccio più lungo della nostra vita”
“Dopo una mezz’ora si riaprì qualche varco nel settore Z della curva maledetta, e io tornai lì per cercare mio figlio. Vidi i morti: avevano il viso bluastro. Cercavo Fabio in mezzo a quei corpi: alcuni erano voltati con la faccia sotto, e io li giravo. Un ragazzo era vestito come Fabio, e aveva i capelli scuri come i suoi: lo girai tre volte e glieli spostai dal viso, quei capelli, per essere sicuro che non fosse mio figlio. Non lo era. Infine, alzai lo sguardo e vidi Fabio seduto in panchina: si teneva la testa tra le mani. Mi vide anche lui. Lo raggiunsi, e fu l’abbraccio più lungo della nostra vita”.
“Restammo nello stadio, non si poteva fare altrimenti, guardammo la partita e ci ritrovammo tutti e cinque insieme solo nel piazzale dei pullman. Ho avuto la forza di tornare allo stadio soltanto nel 2015: la folla mi fa ancora paura. Nel nostro calcio, il lutto e il dolore non sono mai condivisi, sono cose di tifo e campanile, è assurdo. Qui, i morti appartengono sempre a una parte sola: persino gli inglesi hanno capito che non è così, e dopo l’Heysel hanno rifatto gli stadi e colpito immediatamente i violenti: li arrestano già sulle gradinate. Noi reduci di Bruxelles abbiamo il dovere di testimoniare, anche se mi chiedo a cosa sia servito tutto questo”.