Non capita tutte le sere di passare dal 3-0 al 3-3, com’è successo al Manchester City di Pep Guardiola, raggiunto l’altra sera sul pari dal Feyenoord in Champions League. Però capita. E, se capita, non puoi sapere come la prendi. Guardiola l’ha presa male, e ai microfoni della stampa si è presentato con vistosi graffi in testa e sul volto: “Me li sono fatti da solo — ha detto –. Volevo farmi del male”. Poi ci ha pensato, e l’indomani ha voluto mostrare di essere perfettamente consapevole che l’autolesionismo non va preso a cuor leggero.
Giusto. Ma come va presa allora una sconfitta? Come la prese Carlo Ancelotti, nella finale stregata di Istanbul, quasi vent’anni fa? Un Milan stellare rifila tre gol al Liverpool e va al riposo certo di avere la vittoria in tasca. Dalla curva si alza un coro possente, ma sono i tifosi del Liverpool a cantare, indomiti. E, alla ripresa gli inglesi ne fanno tre, recuperano il pesante passivo, vanno ai supplementari e vincono la coppa ai rigori. Sulla panchina del Milan sedeva forse l’allenatore più flemmatico del mondo, che ai suoi, nell’intervallo, l’aveva pure detto: gli inglesi non muoiono mai. E infatti: in soli sei minuti, sei stramaledettissimi minuti, i Reds si prendono la finale. Ma nonostante la tremenda delusione sul volto di Ancelotti a fine partita non comparve neanche un graffio. Né risulta che si sia strappati i capelli o tormentato le unghie: niente. Lui l’ha raccontata mille volte: giocammo meglio, eravamo più forti, avemmo più occasioni, meritavamo di più, eppure hanno vinto loro. Non c’è logica, non c’è senso. Ma è finita lì, e oggi Ancelotti è — pelle liscia e rasata, capelli con la riga e bene ordinati — tra gli allenatori più vincenti della storia.
Per dire cosa significhi infliggersi del male da soli basta una parola, però è lunga diciotto lettere: heautontimorumenos. Vuol dire: il punitore di se stesso, ed è il titolo della più celebre commedia di Terenzio. Secondo secolo avanti Cristo, quindi più di duemila anni fa: Guardiola ha di che guardarsi indietro. Se lo farà, non troverà un campo di gioco ma un campo da coltivare, e sopra un vecchio, Menedèmo, che si è inflitto la punizione di lavorarlo tutto il giorno, da solo, per avere scioccamente impedito al figlio di sposare la ragazza amata, Antifilia, soltanto perché povera e priva di mezzi. Ora il figlio è lontano, partito per la guerra, e Menedèmo, come Guardiola, è oppresso dalla colpa. La differenza principale con la vicenda di Guardiola non sta però nella storia d’amore, ma nel telecronista. Che non era un commediografo latino e non ha quindi risposto al modo in cui risponde Cremète, il vicino che consola il vecchio con una frase immortale, che inventa un nuovo senso di umanità, di fratellanza, di vicinanza. A Menedèmo che lo apostrofa in malo modo, che vuole essere lasciato stare, che vuole solo sfogare il suo malumore e la sua collera, Cremète replica: “Sono un uomo, e nulla di ciò che è umano considero a me estraneo”. E cioè: sono un uomo, sono come te, ti sono vicino, la tua vicenda è la mia vicenda, mi riguarda, posso capire, posso sentire la tua amarezza, posso accogliere il tuo sfogo, posso poggiare la mia mano sulla tua spalla, posso star qui con te.
Ora, nulla del genere si può chiedere a un cronista: lo capisco. Ma poiché Guardiola è tornato sull’argomento, poiché il masochismo e l’autolesionismo sono tra i misteri più profondi dell’animo umano (neanche Freud ha saputo vederci chiaro, e scioglierne il mistero), forse conviene metterla così: tutte le volte che vi capiterà di sentirne il dolore, non sarà importante spiegare, sarà importante esserci. (Poi, per la Champions, chiedere a Ancelotti).