La voce di Igor Protti è molto calda, e scorre come un sospiro. Ha toni bassi, pause e sussurri, ma anche una fermezza che sorprende. Da tre mesi, Igor sa di essere malato di cancro, è stato operato al colon, ora è alle prese con la chemioterapia. Venerdì, allo stadio di Livorno, è stato felice e ha pianto. In settemila, tutti per lui. Cori e cuori. Non finisce qui.
Igor, ci racconta quella cosa dei chiodi?
«Eh, avevo undici anni, era il 1978 e per i Mondiali d’Argentina era stato messo in commercio un pallone bellissimo, si chiamava Tango e costava un sacco. Lo chiesi al babbo, che mi disse: va bene, te lo compro se vieni con me al cantiere per una settimana. Era muratore. Mi alzavo alle cinque di mattina, mi facevano portare il secchio con la calce, mica pieno, è chiaro, avevo imparato a guidare la gru con i bottoni. E a raddrizzare i chiodi che si levavano dalle assi, perché a quel tempo non si buttava via niente».
Se lo sarà meritato, quel pallone.
«Alla fine, non lo volli più. Avevo capito quanto costa la fatica, mi era bastato questo».
Tanti ne ha poi mandati, in porta, di palloni. Cos’è un gol?
«Pura gioia condivisa. Quando la palla supera la linea, allora sei davvero libero e sai che hai fatto felice tanta gente. Io so cosa vuol dire, perché dentro di me è rimasto il tifoso che ero».
E una maglia, cos’è?
«La vita intera, anche se la indossi per un giorno soltanto. Una maglia di calcio è responsabilità, perché vuol dire storia, città e appartenenza. Io, le mie, le ho amate tutte».
Certo che però, il Livorno e il Bari…
«Quelle sono anime. Ci vogliamo tutto il bene del mondo. Venerdì, quando lo stadio “Picchi” ha cantato il mio nome, ho pianto. Avevo la chemio attaccata al braccio e ho pianto. Non mi sono mai vergognato delle mie lacrime. In quelle di venerdì c’erano gioia, nostalgia e paura che fosse l’ultima volta. Ho tanta paura. Dopo la botta di adrenalina, il crollo è sempre in agguato».
Come ha scoperto la malattia?
«Qualche perdita di sangue, pensavo un’altra cosa. Poi gli esami, e un quadro più grave del previsto. Non ho realizzato subito, però mi sono detto che un infarto o un incidente sarebbero stati peggio, perché non avrei potuto passare nemmeno un minuto in più con i miei cari».
Come sta adesso?
«Mi sento molto stanco e un po’ confuso, ho momenti di buio profondo che alterno a pensieri più positivi. Il cancro sta vincendo 3-0 ed è sleale, perché non mi ha fatto sentire il fischio d’inizio. Ora mi tocca rimontare, ho il dovere di provarci anche se sarà dura. Non ci giro intorno».
Ci racconta la sua giornata?
«Cure e pensieri, può capire solo chi lo vive. Ma anche l’affetto di tanta gente: non lo avrei mai immaginato, non così. Ora so di avere sbagliato tante cose, di avere buttato troppo tempo in fesserie, in preoccupazioni, tutte cose che non contano. Vorrei dirvi di non fare come me: siate felici di ogni mattina vissuta in salute. Non pensate al futuro da immortali, ma al presente così bello e precario: non abbiamo altro, e dura niente. E fate prevenzione, fate sempre gli esami. Io forse ho aspettato troppo».
Un atleta non dovrebbe reggere meglio l’impatto con la malattia?
«Mi guardo nudo allo specchio, ho perso 15 chili e mi sembra di essere invecchiato di vent’anni in tre mesi. Ma non posso farci niente, se non affidarmi ai medici e al cielo, tanto alla fine decide lui».
Perché ha recitato con i ragazzi disabili?
«Ah, la compagnia “Mayor von Frinzius”. Eccezionali! Il loro regista Lamberto Giannini, un fuoriclasse, mi propose di salire sul palco ma io temevo di non essere all’altezza. Si balla, si danza, si seguono canovacci e si improvvisa. Ho recitato in due serate al teatro Goldoni di Livorno: indimenticabile».
Lei è stato l’ultimo calciatore a segnare in serie A con la maglia numero 10 del Napoli.
«Da ragazzino, il mio idolo era Rivera. Nel ’95 chiesi la 10 al Bari, poi alla Lazio e quindi al Napoli, dove naturalmente non potevo neanche pensare di avvicinarmi a Diego, nessuno al mondo poteva farlo. Una cosa simile è anche imbarazzante, però spero che quella maglia incredibile, poi ritirata, sia stata almeno un po’ contenta di essere indossata da me».
Lei come si definirebbe?
«Come persona, direi realista e rispettoso, e so di non essere cambiato. Ma se alla fine di questa storia andrà tutto bene, diventerò anche una persona molto diversa. Altrimenti sarei un deficiente».
Stanno girando un documentario su di lei: quando lo vedremo?
«Le mie parti le avevo registrate tutte prima della sorpresa della malattia, a ottobre dovrebbe essere pronto. Vedremo come starò, ad ottobre, e se potrò esserci per presentarlo nelle mie città del cuore».
Sul suo profilo social c’è una frase di Biagio Antonacci: “Immagina se il sangue fosse fragola”. Igor, lei oggi cosa immagina?
«A volte, di essere guarito e felice. A volte di non esserci più. Così navigo a vista, senza la bussola ma cercando la mia stella».