TORINO – Perché allenare la Juventus è così maledettamente difficile? Perché lo è altrettanto scegliere chi deve allenarla? Il muro che Thiago Motta non è riuscito a scavalcare è lo stesso che fermò Gigi Maifredi in un’altra era geologica bianconera, è lo stesso contro il quale sono andati a sbattere Sarri, che pure a Torino ha vinto uno scudetto, e Pirlo, che Andrea Agnelli immaginava come una specie di potenziale, nuovo Guardiola. Suggestione del “bel giuoco” da inseguire ad ogni costo? Giusta ambizione, oppure abbaglio? Illusione, o tentativo di aumentare non solo la quantità delle vittorie, ma se possibile anche la loro qualità?
La spinta che portò l’antica Juventus di Montezemolo a ingaggiare Gigi Maifredi, promettente e spettacolare tecnico “giochista” del Bologna (ma allora, per fortuna, questo termine ancora non esisteva), anche come volontà di superare la gloriosa ma forse superata stagione del bonipertismo, è assai simile a quella che ha condotto la Juve di Giuntoli sulle piste di Thiago Motta dopo la lunga, storica ma ormai datata era Allegri, curiosamente partendo dal medesimo stadio e dalla stessa città, appunto Bologna: e, per suprema beffa del destino, proprio il Bologna ex squadra di Motta ha appena sorpassato in classifica la Juventus di Motta. Ma può bastare una brillante stagione a Bologna, o forse due, per diventare allenatori della Juve?
Pirlo e un rischio pagato a caro prezzo
E poteva bastare la suggestione Pirlo, con un futuro in panchina solo immaginato e in quel momento ancora tutto da dimostrare, per affidargli la guida di una delle più importanti squadre d’Italia? Fu un rischio enorme, pagato a caro prezzo dal diretto interessato e non solo. Giocar bene, giocare d’attacco, giocare moderno, giocare all’Europea, giocare per fare un gol in più dell’avversario: quante volte abbiamo sentito questi programmi, nel corso delle varie rivoluzioni tentate dalla Juve, non moltissime in verità, ma quasi tutte concentrate negli ultimi anni. Perché, sulla panchina bianconera o siedono i totem, Trapattoni e Lippi, Ancelotti e Capello, Conte e Allegri, ovvero i collezionisti di trofei ma quasi mai di sperticate lodi alla bellezza, oppure, nel tentativo di andare oltre loro, ci si scontra con l’asprezza della realtà. Come se giocar bene e vincere fosse un ossimoro, eppure c’è chi ci riesce.
La storia bianconera di Ancelotti
A fare da intercapedine tra le due categorie di tecnici, ovvero i patriarchi e gli effimeri, galleggia l’atipico Ancelotti, che non venne esonerato se non dopo due tentativi di scudetto andati a vuoto, complice il gravissimo infortunio che gli tolse Del Piero per una stagione e mezzo. Neppure il diluvio di Perugia bastò a farlo naufragare, anche se poi il riscatto non venne. Uno dei più grandi e vincenti allenatori della storia, alla Juve è stato portato via dalla corrente come accaduto a molti suoi colleghi assai meno illustri e valenti.
Le sconfitte contro Gasperini e Palladino
Per ulteriore ironia della sorte, i 7 gol a zero presi dalla Juventus nelle ultime due partite sono stati realizzati da squadre allenate da bianconeri, cioè Gasperini, per nove lunghi anni alla guida delle giovanili juventine, e Palladino, che nella Juve si formò come calciatore, in panchina ha già dato prova di indubbio valore e, come Gasp, della Juventus è tifoso.
Il tempo che non c’è e il progetto
Forse, allenare la Juve è maledettamente difficile anche perché non c’è mai tempo. Nessuno può aspettare, nessuno può davvero riempirsi la bocca con la parola “progetto”, la vera maledizione dei programmatori costretti a ipotizzare il presente facendo finta di pensare al futuro. Perché, alla Juve, l’unico progetto è adesso, è subito. Ma la chimera, appunto, del “bel giuoco” rende tutto più difficile: già affliggeva il Trap, quando spiegava invano ai suoi critici di non essere affatto un difensivista, lui che portava forsennatamente al cross i terzini Cabrini e Gentile, e faceva giocare insieme in attacco Paolo Rossi, Boniek, Platini e Bettega. Nulla bastò per allontanare l’ombra di Arrigo Sacchi, lui sì giochista sublime e per di più vincitore.
Da Lippi ad Allegri
E che dire di Marcello Lippi, modernissimo tecnico di sintesi di scuole diverse, ma mai profeta del calcio totale? In parte lo era, però non passava per esserlo. Oppure Conte, il più juventino di tutti, il fuoco e l’anima, il capitano, che vinse in Italia ma non in Europa, come se persino a lui mancasse il tocco della bellezza definitiva. Per non dire di Fabio Capello, italianista doc ma impegolato nella stagione di Calciopoli, e di Max Allegri, produttore seriale di scudetti, scalatore di finali di Champions (due in tre anni) ma senza mai piantare la bandiera juventina in cima alla vetta. Il suo primo sacrificio portò a Torino un uomo arrivato assai tardi in serie A, Maurizio Sarri, alieno nell’universo bianconero, tricolore di un momento e poi addio (per lasciare il posto a Pirlo, peggio ancora); e il secondo sacrificio, dopo urla e sceneggiate forse eccessive, però mosse dal cuore e dal fumantino orgoglio livornese, spalancò le porte della Juventus a Thiago Motta, il cavaliere errante (e molto, in effetti, ha errato) dell’ultima illusione.