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Il jazz della Spagna, così De la Fuente ha costruito la squadra campione

I meriti del tecnico nel successo agli Europei delle Furie Rosse

L’anno della Spagna vive anche di paradossi. Nelle stagioni del dominio assoluto (2008-2012) le vittorie della nazionale — un Mondiale e due Europei — non coincisero mai con quelle dei club, e sì che all’epoca il Barcellona soprattutto ma anche il Real erano fornitori quasi totali della Roja. È successo quest’anno per la prima volta: Spagna campione d’Europa e Real Madrid campione di Champions, ma con un solo elemento in comune nella formazione di Berlino, Dani Carvajal.

L’anima della Spagna

Lo stesso Barcellona può rivendicare un unico pezzo nel meccanismo, per quanto nobile come Lamine Yamal; e dunque l’anima della Spagna di Luis De la Fuente — tecnico federale misconosciuto, e su questo torneremo — è altro dai grandi club, e si configura nei nove giocatori baschi in rosa, sei dei quali erano in campo nei minuti finali di Berlino, dal portiere Unai Simon al risolutore Oyarzabal. La cifra dei baschi, che in gran parte giocano fra loro in club fortemente radicati sul territorio (Athletic, Real Sociedad), è la grinta, la fierezza, il senso di appartenenza. Ma queste virtù antiche, e un po’ da luogo comune, devono contenere qualcosa di più profondo se è vero che il massimo profeta del calcio moderno, Johan Cruijff, pretese una nutrita quota basca nel suo Barcellona di inizio anni 90, definito ancora oggi il Dream Team.

Ce n’erano cinque nella squadra che batté la Sampdoria di Vialli e Mancini nella finale Champions del ‘92: Zubizarreta, Bakero, Salinas, Goycoechea e Alexanco, e pensate che rimase in panca Beguiristain, che da direttore sportivo sarebbe diventato l’architetto del Barcellona e soprattutto del Manchester City di Pep Guardiola.

L’arroganza della scuola spagnola

De la Fuente ha vinto con il gioco, meritandosi un apprezzamento unanime che il salvataggio sulla linea di Dani Olmo nei minuti di recupero ha preservato dai distinguo che sarebbero arrivati in caso di successo inglese, anche ai rigori. Il destino della scuola spagnola è quello di venire vissuta come arrogante, perché il possesso della palla, lungi dal decidere le partite, segnala comunque un’ambizione tollerata dagli haters soltanto se porta al successo: rovesciando il discorso fa viceversa ridere la sola idea che questo sia il modo etico di vincere, in opposizione ai malvagi che ci provano con il contropiede. La verità è che giocando un buon calcio hai maggiori possibilità di fare risultato, e se a ispirarti è una scuola consolidata nel tempo puoi allestire una manovra divertente ed efficace anche nei tempi ristretti delle nazionali.

Il cambio di pelle

De la Fuente lavora in federazione dal 2013, ha conosciuto da ragazzini metà dei suoi campioni di oggi, con loro è rimasto nel solco della tradizione instaurata da Cruijff, aggiornata da Van Gaal e Rijkaard, reinventata da Guardiola ed emendata da Luis Enrique in una direzione improduttiva che è stato giusto interrompere. Nella finale con gli inglesi ha avuto il 65 per cento di possesso palla distillandone 11 conclusioni, quasi tutte pericolose, il che ridimensiona i molti discorsi sul presunto cambio di pelle della Roja emersi per qualche cifra insolita dopo la prima gara con la Croazia. La Spagna ha cambiato pelle rispetto alla sua immagine dell’altro secolo, quando il soprannome di “Furie Rosse” fotografava un calcio ardente e molto atletico, ma sostanzialmente acefalo.

Una Spagna jazz

Da vent’anni invece la Spagna fa jazz, fraseggio freddo ed elegante con il controllo del pallone come stella polare: l’unica furia rimasta è il pressing appena persa la sfera, a evitare il contropiede facile degli avversari. È una scuola più dominante che mai: l’ultima Premier è stata vinta da Guardiola davanti ad Arteta, mentre Unai Emery è arrivato quarto.

Nell’impostazione del suo piano tattico (difensivo) Southgate ha schierato cinque giocatori allenati da tecnici spagnoli più il sesto a gara in corso (Watkins) più il madridista Bellingham. E a parità (o quasi) di talento, vince chi suona la sua musica. L’Inghilterra a Berlino ha guadagnato la supremazia territoriale soltanto quando è andata in svantaggio, e dopo il gol di Palmer l’ha subito riconsegnata agli spagnoli. Nel pacco c’era anche la coppa.

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