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Il pugno chiuso di Tommie Smith, giocatori in ginocchio e la Trump dance: quando lo sport si schiera

Dalla rivoluzione a capo chino più famosa nella storia dello sport ai Giochi di Città del Messico 1968 ai giorni nostri, anche il campo di gioco è politica

Non solo la tribuna è politica, pure il campo. Nell’area di rigore si svela il segreto dell’urna, segue dibattito. Ultimo a schierarsi il milanista Pulisic, che in Usa-Giamaica festeggia il gol mimando la “Trump dance”, con movenze molto più agili dell’originale. E’ ormai una tendenza: così pochi giorni fa sul ring il pugile americano Jon Jones, campione del mondo dei pesi massimi U.F.C. e così stanno esultando sempre più giocatori della NFL. Niente di nuovo.

Hamilton inginocchiato

Nel 2017, durante la prima presidenza Trump, lo sport americano, sull’onda della protesta iniziata dal quarterback Colin Kaepernick, si inginocchiava durante l’inno, denunciando le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani. Unico pilota di colore in Formula 1, Lewis Hamilton diede il sostegno pubblico alla campagna denominata “Black Lives Matter”. Ma la rivoluzione, a capo chino più famosa nella storia dello sport è quella ai Giochi di Città del Messico, 1968. Iconica l’esultanza di Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 100 metri. Pugni guantati rivolti al cielo, collana di perle per simboleggiare le pietre usate nei linciaggi degli afroamericani, al polso bracciali dai colori africani per rammentare le catene della schiavitù.

Il Che Guevara di Lucarelli

In Italia, qualche anno dopo, il pugno chiuso è quello del calciatore del Perugia Paolo Sollier. Calce e martello. Trionfi la giustizia proletaria, ma ricordi di rammendare il buco sulla maglia all’altezza dell’ascella. La destra rispondeva con i cori dell’Olimpico di fede laziale: “Giorgio Chinaglia/è il grido di battaglia”. Braccio teso e dito puntato a raccogliere l’ovazione della curva. Epigoni più recenti il livornese Cristiano Lucarelli – la sua maglietta con l’effige di Che Guevara mostrata dopo un gol con l’Under 21- e l’idolo della Lazio Paolo Di Canio, la scritta “Dux” sul braccio destro, il saluto romano col braccio teso dopo un gol nel derby.

Nel Brasile sotto dittatura degli anni 70 e 80 ritagliava consenso l’opposizione della “Democracia Corinthiana” di Socrates e Biro Biro, così come Reinaldo – bandiera dell’Atletico Mineiro – dopo il gol metteva la mano sinistra dietro la schiena e levava il pugno chiuso della destra in aria. Venne marchiato come sobillatore. Spiegò: “Usavo il calcio come palcoscenico”. La password è nota, lo scandalo inevitabile. Xhaka e Shaqiri, nazionali svizzeri di origini kosovare, ai Mondiali di Russia 2018 – dopo Svizzera-Serbia – hanno celebrato i loro gol con le braccia incrociate sul petto e le mani aperte, a simboleggiare l’aquila a due teste, simbolo della bandiera albanese. L’obiettivo: provocare i serbi, infatti Belgrado non riconosce l’indipendenza della sua ex provincia albanese.

Il saluto militare di Under

Certamente politico era il messaggio dell’allora giallorosso Cengiz Ünder, quando dopo un gol fece – lui turco – il saluto militare, un gesto solidale con le campagne militari del presidente Erdogan, colpevole di rastrellamenti, deportazioni e bombardamenti contro la popolazione curda. Un altro turco, Merih Demiral, dopo il gol all’Austria a Euro 2024 ha esultato unendo pollice e medio e lasciando alte le altre dita a imitare un lupo, a inneggiare il gruppo terroristico dei Lupi Grigi.

La protesta di Luvumbo

A febbraio di quest’anno il calciatore congolese Héritier Luvumbu è stato inibito per sei mesi dalla Federcalcio del Ruanda per un’esultanza controversa: mano sulla bocca, dito sulla tempia, un gesto di protesta e una denuncia contro le violenze e le atrocità che da tempo dilaniano la zona orientale del Congo, ferita dalla guerra tra l’esercito governativo e i ribelli dell’M23 appoggiati da Uganda e Ruanda. E infine, se è vero che fare politica significa (anche) avere coscienza civile, allora il misconosciuto Florian Myrtaj, attaccante che ha speso tutta la sua carriera in Italia (Teramo, Cesena e Verona le tappe più rimarchevoli) ogni tanto esultava mimando una remata. Lo faceva per solidarietà con il suo popolo, quello albanese, in anni – il decennio dei 90 – di continue e talvolta tragiche migrazioni per mare.

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