La Turbie – Il cemento di lusso di Montecarlo resta nascosto dalla rupe che protegge il centro sportivo dell’As Monaco Football Club, un nido tra le alture della Costa Azzurra. Adolf Hütter abita a 5 minuti da qui, non nel Principato: “Sono umile, sono austriaco”. È però anche l’allenatore in testa alla Ligue 1 assieme al Psg di Luis Enrique, pur con disponibilità economiche smisuratamente inferiori. Il Monaco è imbattuto in campionato e Champions, dove ha sconfitto il Barcellona, e da un paio d’anni, cioè da quando son arrivati Hütter e il dg Thiago Scuro, l’obiettivo non è soltanto allevare giocatori da rivendere. “Oggi”, dice Scuro, “il 25% della rosa viene dal vivaio. Vogliamo arrivare al 50% e partecipare regolarmente alla Champions”, dove il Monaco è appena tornato dopo sei anni. Lo vedremo due volte in Italia: il 5 novembre col Bologna, il 29 gennaio con l’Inter.
Hütter, quale compito ha? Lanciare giovani o vincere qualcosa?
“Siamo molti ambiziosi. Sviluppando i giovani calciatori, si sviluppano anche le ambizioni”.
Basta per fare concorrenza al Psg e a club che hanno budget superiori al vostro, come Marsiglia o Lione?
“Su 22 partite, se consideriamo le ultime 12 della stagione passata, ne abbiamo persa una sola, quindi questo avvio ci sorprende, ma solo un po’. Ma il Psg resta il favorito, lo è ogni anno. Non guardo alle differenze economiche, ma a quelle tecniche: hanno un grande allenatore e giocatori tra i più forti al mondo. La coppia di centrocampo Vitinha-Ruiz è tra le migliori in assoluto”.
Dunque il Psg è imbattibile?
“Richiedetemelo a marzo-aprile”.
L’anno scorso avete lanciato Akliouche, quest’anno si sta imponendo Ben Seghir, 19 anni: sono loro le conseguenze del vostro lavoro?
“Abbiamo altri quattro ragazzi che vengono dal vivaio. Akliouche sarebbe potuto partire ma è rimasto ed è già molto più forte di un anno fa: sa segnare, fare assist, scappare nell’uno contro uno. Lui e Ben Seghir arriveranno in un grande club, uno di quelli come City, Liverpool o Bayern”.
Lei invece come è arrivato qui?
“Ero un buon centrocampista, con il Salisburgo ho giocato una finale di Coppa Uefa contro l’Inter e da allenatore sono partito dal basso. Per noi che veniamo da realtà minori l’unico modo per emergere è ottenere sempre risultati: ci ho messo 300 partite tra Austria e Svizzera per meritarmi la Bundesliga e altre 100 per il Monaco e la Champions”.
Lei ha fatto parte della galassia Red Bull come Thiago Scuro, che ne era responsabile per il Sudamerica: sente di avere addosso un marchio di fabbrica?
“L’incontro con Rangnick, all’inizio della carriera, mi ha regalato un altro punto di vista sul calcio, facendomi ragionare non solo su quello che puoi fare quando hai la palla ma soprattutto su cosa puoi fare quando non ce l’hai. La sua idea di pressing e verticalità mi ha completato, ma io penso che non ci sia una sola strada per arrivare a Roma, mentre alla Red Bull considerano solo quella”.
Roma sarebbe il gol?
“Esatto. Io voglio che la squadra recuperi la palla più vicino possibile alla porta avversaria, ma soprattutto che giochi un calcio accattivante, che coinvolga il pubblico, che non annoi, il calcio che mi piacerebbe vedere se lo spettatore fossi io. È la risposta a due domande: cosa e come? Cosa vogliamo fare e come pensiamo di farlo?”.
Sarebbe adatto alla Serie A?
“Perché no?”.
Perché da noi si va più piano e nessuno si annoia, se vince.
«Sarà, ma i risultati non vi mancano: penso alle coppe di Roma e Atalanta, alle finali di Inter e Fiorentina. Gasperini è un tecnico molto internazionale, come anche Inzaghi e Spalletti che ho battuto, uno alla Lazio e l’altro all’Inter, quando allenavo l’Eintracht. Ammiro tantissimo Sarri e ammiravo Zeman, anche se in Svizzera gli diedi un 7-0: il suo Lugano difendeva alto, il mio Young Boys pressava subito e segnava”.
E poi da noi gli stranieri attecchiscono di rado.
“Vedo che funzionano quelli di lingua latina, come i portoghesi. Magari è una questione culturale. Però Runjaic, che conosco perché ha il mio stesso agente, a Udine sta facendo molto bene”.
Chi è oggi il suo punto di riferimento?
“Credo di essere simile a Klopp. Ma stimo tantissimo la personalità di Ancelotti. Il calcio non è solo tattica. Sono fondamentali la psicologia e la comunicazione: io dei miei giocatori voglio capire tutto, li invito al dialogo ma so essere duro quando serve e che bisogna tenere una giusta distanza da loro, né troppo vicini né troppo lontani. E quando parlo della comunicazione intendo anche quella con la società, gli sponsor, la stampa, i tifosi. L’allenatore non lo è soltanto sul campo”.
C’è qualcuno che possiamo considerare suo mentore?
“Ho 54 anni e 620 panchine come allenatore capo, penso di poter essere io il mentore di qualche giovane collega”.
Quindi anche l’esperienza è importante?
“Certo, ma l’esperienza non è l’età. Dal noi il più vecchio è Minamino, che ha solo 29 anni, ma giocatori come lui Kehrer, Golovin o Zakaria, che ho avuto allo Young Boys e al Gladbach e ho voluto dalla Juve, hanno alle spalle molte partite, anche internazionali: l’esperienza è giocare, non invecchiare”.
Bologna e Inter sono alla vostra portata?
“Il Bologna devo ancora studiarlo bene, l’Inter è di un altro livello, del più alto. Ho allenato Thuram e Sommer, so quanto valgono”.
Da austriaco, cosa pensa della situazione politica del suo paese?
“Ho le mie idee, ma alla gente interessa solo quel che penso sul calcio”.
Quante volte le hanno chiesto se le dà fastidio chiamarsi Adolf?
“Ogni volta che sono arrivato in una squadra. Il fratello di mia mamma si chiamava Adolf, a 27 anni morì con sua moglie sotto una valanga. Allora mia nonna disse che il primo bambino che sarebbe arrivato avrebbe preso il nome di suo figlio morto, e quel bambino sono stato io. Mamma rispettò la volontà di nonna, ma fin dal primo giorno mi ha chiamato Adi. Io sono Adi”.