Monaco di Baviera – E adesso, la crudeltà della domanda e del dubbio. Simone Inzaghi è l’allenatore che ha portato l’Inter a un passo da tutto, vincendo comunque il penultimo campionato e un po’ di coppe (non quella, però), o è l’allenatore che in quattro anni ha perso male due scudetti e altrettante finali di Champions?
Una dinamica che ha ricordato Messico 70
Con la faccia e la camicia bianca, il pover’uomo è finito schiacciato da un punteggio umiliante. «Anche se non vincerà niente, mio figlio ha già vinto tutto», disse il papà di Simone (e Filippo), signor Giancarlo, dopo il fenomenale 4-3 al Barcellona, una suggestione quasi da Italia-Germania del ’70. Gli azzurri in Messico, all’ultimo atto contro il Brasile, poi ne presero quattro e non cinque come l’Inter fatta a pezzi dai parigini.
Dal sogno all’ecatombe, il triplete al contrario
Ma come si passa dal sogno all’ecatombe, camminando a lungo sul filo dei millimetri? Lo sa benissimo Simone Inzaghi, che alla penultima di campionato aveva quasi strappato lo scudetto al Napoli e adesso non ha più niente in mano, un triplete al contrario, se non le cinque dita della manita, come le scoppole da cinque gol vengono chiamate nella patria di Lucho Enrique: l’uomo che più di ogni altro meritava questo trofeo, lui che nella vita ha vinto 11 finali su 11. Simone, oggettivamente, un po’ meno.
Inzaghi, grida nel silenzio
Era entrato nello stadio già tesissimo, Inzaghi, mordendosi le labbra, tormentando i capelli e spostando il nodo troppo stretto della cravatta. L’abbraccio con Lucho, poi il calvario senza fine. Dopo due minuti sta già camminando sulla linea laterale, dopo dieci è tentato dalla riga di centrocampo, dopo venti è già affogato nel pantano. Si sbraccia per niente, alza le mani e poi le lascia cadere di colpo, sconsolato. Morde l’aria per un’ora e mezza, inutilmente, gridando a nessuno. Lo ammoniscono pure.
“Vado negli Stati Uniti? Vediamo…”
Stavolta è un uomo solo, come ogni allenatore quando la partita spazza via la sua squadra. E forse lo sarà ancora di più da stamattina in avanti. Seconda domanda crudele, ma necessaria: ha senso che Simone Inzaghi resta all’Inter, con una squadra molto vecchia e in gran parte da rifare? Il contratto solo accennato e mai rinnovato resterà lettera morta? L’Arabia lo aspetta, là sono sicuri di averlo già convinto. E ci sono altre panchine libere, altre avventure possibili. Persino la Juventus non ha ancora un nuovo allenatore, a meno che non decida di tenersi quello vecchio. È solo fantacalcio pensare a una tentazione torinese per Inzaghi? Chissà. Di certo, il tormentone contrattuale riempirà parole e spazi bianchi da oggi e per un bel po’. Simone dovrà pensarci, decidere e farci sapere. Lo ha spiegato lui stesso: «Il futuro? Vedremo, ora c’è troppa amarezza dopo due finali perse in tre anni», ha detto a fine partita. «Ma la società ci è stata vicina sempre». E nemmeno sul Mondiale per club Simone ha offerto certezze: «Vado negli Stati Uniti? Vediamo…».
Delle sfide con il Barcellona non è rimasto nulla
La sua lunga avventura da zero tituli, per dirla come un illustre predecessore, lascia come ultima immagine quella di una squadra inesistente e inerme, spaventata e sfinita. Simone Inzaghi ha provato a rianimarla gridando e cambiando, ma non c’erano sostituzioni possibili per un gruppo a cui sarebbe servita, semmai, una trasfusione di calcio. Impressionante, e impietoso, il confronto con le due notti spagnole, contro quel Barcellona che ha rappresentato buona parte della carriera e del magistero di Luis Enrique: cos’è rimasto, di quell’Inter memorabile? Più nulla.
Lo sfregio di Monaco resterà
Alla fine, e mai parola è sembrata più esatta, Simone Inzaghi è andato a cercare i suoi giocatori e li ha abbracciati a uno a uno. È sembrata una forma di consolazione, o forse un commiato. Se questa Coppa lui l’avesse vinta, forse Inzaghi avrebbe potuto andarsene più facilmente, come Mourinho dopo Madrid; ma così, ma adesso, come potrà facilmente restare? Lo sfregio di Monaco resterà negli occhi e sulla pelle, cicatrice più profonda di quanto può esserlo stata la soddisfazione di un’annata senza calcoli né risparmio, vissuta tutta all’ultimo respiro. Quel respiro che si è bloccato in gola, diventando prima affanno e poi sospiro. La sensazione è che niente possa più essere come prima.