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Italia, una laurea con Spalletti. Sergio Brescia e la tesi scritta con il ct: “Conosce tutti i sistemi di gioco”

Intervista al tecnico che ha preparato con il ct della Nazionale la laurea “il sistema di gioco 3-5-2”

Iserlohn. Sergio Brescia, sa che nel suo sfogo pubblico dopo la qualificazione Luciano Spalletti, per difendere le proprie scelte tattiche, ha citato indirettamente anche lei?

“Ho sentito la sua conferenza stampa in Germania. Ha citato la tesi di laurea al Master del 1999 a Coverciano. Si intitolava “Il sistema di gioco 3-5-2”. L’abbiamo scritta insieme”.

Significa che il ct è tornato indietro di 25 anni?

“Nemmeno per sogno. Luciano intendeva dire che le sue conoscenze tattiche sono radicate e profonde e che niente nel calcio professionistico si improvvisa. Ovviamente il 3-5-2 messo in campo con la Croazia è una versione evoluta di quello del ’99, che era più difensivo. E comunque lui i sistemi di gioco li conosce e li sa applicare tutti, anche trovando le contromosse a quelli degli avversari: è un maestro delle contrapposizioni”.

Lo teorizzava già nella tesi?

“Me l’ha fatta configurare lui: io allenavo nel settore giovanile, sono arrivato fino alla serie D e oggi sono il direttore tecnico dell’Accademia Inter, pur non avendo mai smesso il mio lavoro in un’azienda del settore dentale. Avevo anche iniziato a intervistare i colleghi allenatori e a scrivere articoli di calcio. La tesi di Coverciano, che a quell’epoca non veniva ancora digitalizzata, è diventata una specie di cimelio. La conservo gelosamente, con la dedica di Luciano. Prendeva in considerazione tutti gli aspetti del sistema 3-5-2: il lavoro con lo staff e con i giocatori, gli elementi di gioco e le tipologie di allenamento. Ma nel frattempo c’è stata appunto un’evoluzione”.

Quale, in particolare?

“È visibilissima ad esempio nell’Inter: i cosiddetti quinti, gli esterni, sono molto alti, diventano frecce nello schieramento avversario”.

Pensa che Spalletti si sia sentito accusato di difensivismo?

“Penso che abbia voluto mettere in chiaro una cosa: il calcio attuale, a prescindere dai sistemi, è fondato sulla velocità, sull’uomo contro uomo a tutto campo, sui duelli. Chi ne vince di più parte già in vantaggio”.

La Nazionale per ora non ne vince molti.

“Magari qualcuno, come Dimarco e Pellegrini, non era brillante. E magari Jorginho è un direttore d’orchestra che ha bisogno di due mezzali che corrano per lui. Ma ho visto miglioramenti, rispetto alla sconfitta con la Spagna. Di sicuro la Nazionale non era schierata per difendersi, ma per attaccare. Poi dipende sempre dagli interpreti e dal fatto che riescano o meno a seguire i principi di gioco”.

Per questo Spalletti si è arrabbiato e ha detto che il suo patto con la squadra non andava svelato all’esterno?

“Al fischio d’inizio ci sono gli avversari e i tuoi giocatori: devi cercare di vincere ogni duello. La storia del patto, secondo me, significa che i giocatori vanno sempre ovviamente ascoltati, ognuno dice la sua. Ma poi decide l’allenatore ed è assurdo pensare il contrario. Cioè in Nazionale decide Luciano”.

Che lei conosce bene da quando?

“Ci siamo un po’ persi di vista, ma siamo rimasti legati. Lo conosco dal 1996, quando passammo di settimane da compagni di stanza al corso di Coverciano. Fummo sorteggiati insieme e legammo appunto molto. Lui stava portando l’Empoli in serie B. Ricordo che doveva andare a Como per il play-off e io, che all’epoca allenavo la Beretti della Pro Patria, scherzando gli dissi di vincere, altrimenti non l’avrebbe più sopportato nessuno”.

Lo trova cambiato caratterialmente?

“L’unica cosa in cui può essere cambiato è che è diventato un uomo ricco. Quando l’ho conosciuto, faceva divani col suo caro fratello Marcello. Poi Fabrizio Corsi, all’Empoli, gli ha dato fiducia e la sua è stata una cavalcata, dopo l’annata difficile alla Sampdoria. Ma quella retrocessione inganna. Partì così e così, fu sostituito da David Platt e richiamato. Retrocesse solo all’ultima giornata per un rigore. Non si è mai perso d’animo, durante la sua gavetta. E io non ho mai smesso di seguirlo, con l’occhio del collega”.

Da amico, che cosa può dire dei suoi sfoghi?

“Che i monologhi li ha sempre fatti. Se perdeva la pazienza, batteva la mano sul tavolo. Ora la mia percezione, avendo io un anno in più di lui, è che sia più tranquillo. Forse inconsciamente a volte si chiude, perché ha avuto successo e ogni tanto può pensare che la gente lo voglia attaccare senza ragione”.

Pensa che cambierà ancora modulo con la Svizzera?

“Penso che uno può mettere dieci ciliegie sul tavolo, per simulare un sistema di gioco, ma poi quel sistema non è mai statico. Dipende anche dall’avversario, lui è attentissimo a questo. Di una cosa però sono certo: qualunque decisione prenda, sarà sempre per ottenere il risultato massimo. Luciano non è uno che pensa a se stesso e all’affermazione delle teorie a ogni costo”.

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