Al termine di Verona-Milan i tifosi rossoneri hanno fischiato la proprietà americana della società. Quelli gialloblù hanno osservato perplessi: il Verona è appena stato acquisito da una cordata statunitense. Sarà meglio? Sarà peggio? Si è giocata Genoa-Napoli. I padroni di casa ora parlano romeno (e qualcuno la vive come un testacoda della storia); gli ospiti tollerano la proprietà italiana soltanto per lo scudetto di due anni, fa, ma De Laurentiis ha dovuto prendere Conte come scudo umano dopo la passata stagione.
A Torino, sponda granata, festeggerebbero l’arrivo dei tedeschi, ma anche dei lussemburghesi o dei lillipuziani, pur di cambiare. A Bologna dicono che «il canadese si è tenuto il tesoretto». A Siena hanno gli svedesi, con tanto di azionariato popolare tra Malmoe e Uppsala, ma danno loro «un anno di permanenza». Le proprietà straniere sono quasi sempre indigeste, non si fanno capire, nominano plenipotenziari arroganti o riciclano personaggi di cui non hanno letto bene il curriculum. Quando ci sono, si invoca il made in Italy; quando c’è quello: passi lo straniero.
La curva della Sampdoria è più felice adesso, con gli americani, o prima, con Ferrero? Cambiereste Lotito con un fondo qatariota? Sì, certo, prima che arrivi. Il giorno dopo: «aridatece er puzzone». Che la Serie A diventi per la maggior parte di proprietà straniera è inevitabile. È accaduto alla moda, succede al calcio. È successo altrove, accade qui. Non c’è scandalo e non c’è inganno. L’idea dell’industriale cittadino è un unicorno. Non c’è città le cui principali industrie non siano in mano a capitali stranieri. Prendersela con la loro poca conoscenza del luogo e del meccanismo è fuori tempo. Anni fa si faceva outsourcing a Timisoara, adesso nei capannoni all’Est tentiamo di portare soltanto profughi. Senza fin qui riuscirci.
I presidenti a chilometro zero sono esauriti. Come molte altre cose i titolari del ruolo sono stati smaterializzati, resi virtuali, agiscono da remoto. Quando vincono ricevono la cittadinanza onoraria, quando faticano, l’ostracismo. I tifosi in realtà pensano che la squadra sia loro, soltanto loro, che al possidente di turno l’abbiano data in affitto, con un contratto di risultato, e se le cose si mettono male abbiano diritto di riprendersela e girarla al milionario successivo. L’inquilino ha l’obbligo di ristrutturarla a sue spese rendendola splendente. È evidente che molti presidenti, italiani e non, hanno firmato un differente accordo. E su questo equivoco si regge il più traballante degli affetti.