ORLANDO – Oggi il Flamengo di Jorginho (e di Danilo, e di Alex Sandro) sfida a Miami il Bayern nell’ottavo di finale più prestigioso e tecnicamente più evoluto del Mondiale per club. L’azzurro è nella squadra di Rio da neanche un mese, dopo una carriera spesa interamente in Europa. «Ho lasciato il segno in Italia, l’ho lasciato in Inghilterra e volevo farlo anche nel paese dove sono nato e da cui sono partito quando avevo 15 anni. Avevo voglia di vivere un’esperienza vicino ai miei genitori e a mia sorella e di fare qualcosa di importante in una squadra importante, visto che sto ancora bene».
Ma lei si sente italiano o brasiliano?
«Può sembrare una risposta di comodo, ma ho passato più di metà della vita in Europa e dico con il cuore che mi sento tutti e due. Sono italiano in quello che mangio, nella mentalità del lavoro, nella parte tattica del calcio».
La sorprende la crisi della Nazionale?
«Siamo sorpresi e dispiaciuti un po’ tutti, perché l’Italia deve stare nell’élite del calcio mondiale».
Gattuso ha chiamato anche lei?
«No, ma fino a quando giocherò ad alti livelli, sarà sempre un onore rappresentare il paese che amo e che mi ha dato l’opportunità di vivere il mio sogno. Se pensa che potrei essere utile non mi tirerò indietro: non rifiutereri mai una convocazione. Vincere il Mondiale col Flamengo potrebbe servirmi a convincerlo, è una buona vetrina».
Si è fatto un’idea dei problemi azzurri?
«Domanda difficile e risposta complessa. Facendo anche il confronto con l’Inghilterra, si vede però che i giovani non vengono mai fuori, quindi c’è una motivazione profonda e che parte da lontano. Però poi vedi che l’Inter gioca due finali di Champions in tre anni e fai un po’ fatica a definire il calcio italiano in crisi».
L’accusa è che molti giocatori non siano legati all’azzurro: la condivide?
«Finché sono stato in Nazionale io, non ho mai visto nessuno che non sentisse la maglia. Posso parlare per me: una volta che ti vesti d’azzurro non pensi a risparmiarti, è impossibile. Hai lavorato tutta la vita per essere lì, ci arrivi, realizzi il tuo sogno da bambino e cosa fai, lo butti via?».
E se non fosse più un sogno di bambino?
«Allora sarebbe grave».
Gattuso è l’uomo giusto?
«È un allenatore importante, di carattere, che può tirare fuori tante cose dai ragazzi, credo sia capace di ricavare il meglio. Ma poi alla fine sarà il risultato a contare. Secondo me si può ancora andare al Mondiale: le cose per l’Italia non sono mai state facili, abbiamo sempre dovuto sudare, sudare, sudare, è stata sempre una fatica. Però fa parte del gioco e bisogna crederci. Io ci credo».
Lei sta pianificando un futuro in panchina?
«È una domanda che mi sto facendo anch’io. In tanti mi dicono: hai un futuro, devi farlo, devi farlo. Io ho sempre pensato che boh, non lo so, non vorrei perdere i capelli per lo stress. Però ci sto pensando, potrebbe essere una seconda carriera».
Da chi ha preso di più, tra Sarri, Tuchel, Arteta?
«Anche questa risposta sembrerà un cliché, ma è semplicissima: quando lavori con tanti allenatori così bravi impari un po’ da tutti, la parte difensiva da questo, quella offensiva da quello, la gestione del gruppo da un altro. Alla fine sta a te saper assorbire il meglio da ciascuno».
Cuesta com’è?
«Cuesta? Ah, ok, Carlos…Che l’abbia preso il Parma non mi ha sorpreso perché è un ragazzo per bene e molto molto preparato, che studia tanto e ha imparato tanto da Arteta. Faccio il tifo per lui, se lo merita. Secondo me ha un bel futuro».
Il futuro delle squadra brasiliane invece com’è?
«Sono forti, preparate e stanno migliorando tanto a livello tattico. Io non ci avevo mai giocato e mi sembravano un po’ indietro, adesso invece c’è una mentalità europea e la qualità dei giocatori brasiliani sappiamo tutti qual è: questa competizione è l’occasione per vedere a quale livello siamo arrivati».
Da piccolo era tifoso?
«Ho uno zio che è malato di Flamengo e ha una foto di me con la maglia rossonera, ma io pensavo solo a giocare».
Il Flamengo può vincere il Mondiale?
«Se non credessimo di poterlo fare sarebbe inutile stare qua».