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Josep Martinez: “A cinque anni ero già in porta. Il mio segreto? Il pisolino”

Intervista al portiere spagnolo diventato titolare nell’Inter per l’infortunio di Sommer: “Mio padre mi chiamava colilla, che vuol dire mozzicone, perché da bimbo mi buttavo sempre a terra. Faccio la siesta al pomeriggio, così recupero energie. È dura fare il 12°, ma Yann resta un modello”

MILANO — Il suo soprannome è Pepo. Ma da bambino Josep Martinez era “colilla”. In spagnolo significa mozzicone di sigaretta. «Mi chiamava così papà, fumatore, perché ero sempre per terra. Mi lanciavo, mi rotolavo, spesso con una palla», dice.

Prove di parata in tuffo?

«A cinque anni ero già in porta, con i bambini più grandi. Andavamo a vedere il Valencia e guardavo solo i portieri. Mio padre lo aveva fatto da ragazzo, da amatore».

Quando ha capito di essere forte?

«Mi sono sviluppato tardi. A 15 anni, in una stagione, sono cresciuto otto centimetri, arrivando a un metro e 91. E mi ha chiamato il Barcellona».

Qual è il segreto della Masia, la cantera blaugrana?

«Impari una filosofia di vita. Devi impegnarti anche nello studio. E ti insegnano il tiki-taka».

Anche ai portieri?

«Non sapevo passare di sinistro a un metro. Due anni dopo, calciavo con entrambi i piedi».

Inzaghi ringrazia.

«Anche io. Lì ho capito che avrei potuto fare il professionista, come Cañizares, il mio idolo, e Casillas. Da spagnolo, lo preferivo a Buffon. Che rivalità bellissima».

Altri modelli?

«Neuer, coraggioso e maestro nei tempi. Ho giocato in Spagna, in Germania al Lipsia, ora in Italia. Tre grandi scuole».

Nella vita, a chi si ispira?

«Sergio Barila, il mio agente, un secondo papà. Si parla dei procuratori come dei cattivi del calcio, ma è non è così».

Gira voce che lei sia un dormiglione. Vero o falso?

«Faccio la siesta ogni pomeriggio, mi aiuta a recuperare energie».

Inzaghi dice che l’Inter gioca per tutti gli obiettivi. Le sue priorità?

«Vogliamo vincere tutte le partite. Il primo pensiero è il campionato, la Champions è il sogno».

Al Genoa era l’uomo delle parate negli ultimi minuti.

«Se sono qui, è grazie a quei mesi stupendi. Ma ho anche preso gol nei finali di partita. Si vince e si perde. L’importante è farsi trovare pronti».

A Lipsia ha fatto quattro presenze in due anni. Ora è il secondo di Sommer. È dura essere il numero dodici?

«Non è facile. Devi lavorare su te stesso, allenarti, aspettare l’occasione, sapendo che può arrivare in ogni momento».

Ha giocato le ultime quattro gare. E ora che Sommer è tornato?

«Non lo so nemmeno io! Ma so che con Yann abbiamo un rapporto bellissimo. Ha dieci anni più di me, è un modello. Con i piedi è il numero uno al mondo».

Usa anche lei occhiali digitali?

«Sì, per la reattività facciamo tanto: stimoli visivi, esercizi con palline da ping pong. Tutto conta».

Sommer è molto attento all’alimentazione. Lei?

«Mi mancano il pesto di Genova e la focaccia pucciata nel cappuccino. Pure le arance di Alzira, la mia città, le più buone al mondo».

Passioni oltre al calcio?

«Il surf, il tennis e la PlayStation, che mi tiene connesso agli amici lontani. Come Gudmundsson».

Sembrava anche lui vicino all’Inter.

«Non lo so, sarebbe stato bello, ma è contento a Firenze».

Alla Pinetina chi sono i suoi amici?

«Dico tutti. È un bel gruppo. Gran parte del merito è di Inzaghi. Capisce le persone, i momenti gli stati d’animo».

Çalhanoglu a parte, chi calcia meglio i rigori?

«Lautaro, tira fortissimo, Zielinski è un buon rigorista, e che sinistro Dimarco. Non saprei scegliere».

È vero che voi portieri siete tutti matti?

«La maggior parte sì, e non faccio eccezione. Ti alleni da solo, in campo sei spesso lontano dai compagni, ti devi fare compagnia da te. Si impara anche quello. Finita la carriera, mi piacerebbe fare l’allenatore dei portieri».

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