Anche se la terza prestazione è stata meno efficace delle prime due, com’era prevedibile visto il livello superiore dell’avversaria, la sensazione che la rivoluzione della Juventus poggi su basi solide resta forte. Tre anni fa Andrea Agnelli aveva convinto Max Allegri a tornare chiedendogli soltanto la zona Champions, perché c’era un risanamento da curare dopo gli anni di Ronaldo e il mercato non avrebbe garantito grandi aggiunte a una rosa già un po’ depressa. Non fu una grande idea — la Juve non può dichiarare un quarto posto come traguardo — e la rivoluzione tecnica di quest’estate è la logica prosecuzione di quella societaria del 2023. Possiamo discutere a lungo se lo strappo con Allegri, considerato il ruolo ormai acquisito nella storia del club, avrebbe potuto essere meno brutale (la lite di Roma fu la conseguenza di mesi di incomunicabilità e tensione, e non tutto era ascrivibile al caratteraccio del tecnico). Non si discute invece la necessità di resettare la guida tecnica, e di evolverla in senso opposto al situazionismo di Max: Thiago Motta è talmente il suo contrario, non soltanto alla lavagna ma anche davanti a un microfono, da rendere evidente il cambiamento in ogni sua espressione. Che poi gli approcci diversi portino in alcuni casi agli stessi effetti — tipo la difesa che riesce a non farsi tirare in porta quasi mai — è il senso del calcio troppo spesso ignorato per spirito di fazione. Tutti vogliono segnare, nessuno vuole subire, ma ci sono molti modi per realizzare questi proponimenti. Quando sentite dire, spesso in tono sarcastico, che uno “predica il bel gioco ma intanto blinda la difesa”, cambiate canale: il bel gioco certo non presuppone una difesa allegra.
La scelta Thiago Motta
La scelta di Giuntoli è caduta su Thiago per il più semplice dei motivi: il suo Bologna giocava magnificamente e otteneva risultati, visto che era dal 1964 che non si qualificava per la competizione europea più importante (né l’aveva mai sfiorata nella modernità delle due, e poi tre, e poi quattro ammesse per Paese). Motta è stato contattato ben prima che il Bologna vidimasse il suo passaporto, diciamo sulla fiducia che ispiravano le partite di Zirkzee & Co.: un’apertura di credito alla quale ne hanno fatto seguito delle altre, tutt’altro che abituali e che dunque vanno riconosciute al club. Ne abbiamo contate tre, e la prima gli si potrebbe pure ritorcere contro perché la liquidazione di una Next Gen (Soulé, Huijsen, Miretti, Nicolussi, Iling-Junior, Barrenechea) ha portato denari ma aperto a possibili rimorsi. Che succede se Soulé, che è certamente bravo, alla Roma diventa una star? Si è deciso di correre questo rischio, ed è un calcolo che implica coraggio.
Gli addii pesanti e le scommesse giovani
La seconda apertura di credito, forse la più rivoluzionaria di tutte, riguarda l’accantonamento di molti giocatori. Questa è una voce sulla quale la Juve ci ha rimesso non poco, dal punto di vista economico, perché il valore di mercato di un emarginato cala in modo brusco (basta pensare a Chiesa): ma la possibilità di lavorare esclusivamente con i “propri” giocatori, specie all’inizio di un ciclo, è un privilegio raro e inestimabile, e a Thiago è stato concesso. I frutti li abbiamo visti. Mbangula e Savona hanno avuto tempo e spazio per far scorgere le loro potenzialità, se Kostic e De Sciglio — per citare due giocatori tatticamente coincidenti con i due ragazzi — si fossero allenati con il gruppo, non sarebbe stata la stessa cosa. Nel rispetto di Di Gregorio, che è un ottimo portiere, noi non comprendiamo come sia stato possibile rinunciare a un campione come Szczesny: diamo però atto a Giuntoli di aver operato senza tentennamenti. Un cerotto si strappa, non si stacca a poco a poco.
Il braccio di ferro con l’Atalanta
La terza manifestazione di fiducia è quella più ovvia — ma anche qui non scontata — , l’acquisto dei giocatori indicati dal tecnico come pilastri del suo progetto. La Juve è tornata in modalità simil-Bayern prendendo il meglio del mercato interno. Abbiamo detto simil perché i bavaresi in Germania non hanno rivali all’altezza come bacino di tifosi, mentre qui ci sono le milanesi: ugualmente Koopmeiners e Gonzalez erano i pezzi migliori di due finaliste europee come Atalanta e Fiorentina, dunque prede di alto livello. E Koop ha costretto la Juve a un braccio di ferro con una delle sue alleate storiche come l’Atalanta, che peraltro ha ormai smesso i panni di serbatoio delle grandi (da Scirea per la Juve a Donadoni per il Milan a Bastoni per l’Inter) per diventare uno dei club più potenti d’Italia. Koopmeiners alla fine l’ha dato, sì, ma strappando un prezzo privo di simpatia per chi l’ha acquistato, viste le modalità. Perché è vero che tutti i club contattano i giocatori prima di farsi vivi con le società, ma tra amici in genere certe trattative si fanno con i guanti.
Lottare fino alla fine
Il molto che la Juve ha portato all’altare di Thiago Motta, e che ha impegnato finanziariamente il club anche per la stagione a venire, si spiega con l’ambizione di correre subito per vincere, in Italia e in Europa. Mettiamoci d’accordo sulle parole, perché è la questione centrale: correre per vincere non vuol dire obbligo di vincere — quello ce l’hai solo nelle stagioni in cui porti un Ronaldo — ma di lottare fino all’ultima partita o giù di lì. Il posto Champions, per intenderci, va dato per scontato nel senso che potrà rivelarsi un obiettivo sufficiente a maggio, non certo a settembre. Le interviste di Motta sono dichiarazioni d’intenti molto generiche, in certi momenti rievocano persino l’indimenticabile Peter Sellers di Oltre il giardino, laddove Allegri era brillante, quando non eccedeva divertente, e a volte caustico. Al di là delle evidenti differenze di carattere, due modi di essere condizionati dai rispettivi palmares: Motta è sicuro di sé, non ancora della sua immagine, e visibilmente dei suoi interlocutori. Il che aumenta la curiosità nei suoi confronti, e questo non è un male.