TORINO – Papà, la scuola non mi piace, è come quando segna l’Inter. La piccola Nina Chiellini, ormai neppure più tanto piccola, lo diceva al suo babbo qualche anno fa, lei alle prese con i primi quaderni a quadretti, lui con i soliti nerazzurri a righe. Stavamo preparando insieme il suo libro, e Giorgio non aveva mai una parola acida contro nessuno. Ma quando gli nominavamo l’Inter, ammetteva che sì, è giusto parlare di odio sportivo: “È normale, ci siamo sempre scannati”. Le visioni del mondo di Giorgio e Nina coincidevano. “Io posso accettare chiunque davanti a me in classifica, non l’Inter”. A quel tempo non è che accadesse tanto spesso.
Il derby d’Italia di Gianni Brera
E non è prevedibile iconografia, è proprio un sentimento acido il più possibile, e del tutto corrisposto. Inter e Juve si detestano davvero, quasi come Milano e Torino divise ormai da una breve ora di treno, ma in quei 127 chilometri rettilinei e piani c’è un universo. Esistono milanesi che comprano casa a Torino, magari dalle parti della stazione ferroviaria di Porta Susa, perché si spende assai meno che a Milano, e col treno si fa più svelti che nel nodo di tangenziali, abitando, nel caso, in quel ventre molle e disagevole che è la grande periferia lombarda. Torino si sente culturalmente superiore, Milano sa di essere da sempre più ricca e potente. Il derby d’Italia, come Gianni Brera lo battezzò nel 1967, soprattutto fuori dallo stadio non finisce mai in pareggio.
Il derby d’Italia vinto dieci volte di seguito
La storia del calcio si è incaricata di versare veleno nelle coppe, metaforicamente parlando (quelle sportive, invece, le ha vinte di più Milano, però con assai meno scudetti), brindisi all’arsenico, compresi i vecchi merletti. Antichissima la prima volta, 14 novembre 1909, la Juve vinse in casa 2-0. E meno di una trentina di anni dopo, i bianconeri di Carletto Carcano si presero il derby d’Italia per dieci volte di seguito. Ma dopo altri trenta, ecco i ruggenti Sessanta con l’Inter mondiale e la Juve un poco implosa.
“Il nostro cuoco ha comprato l’Inter”
Non è qui il caso di ricordare tutte quelle volte che. Carina, certo, la battuta dell’avvocato Prisco: “Quando stringo la mano a un milanista, poi me la lavo, ma quando la stringo a uno juventino poi conto le dita”. Non male neppure quella di Gianni Agnelli rivolto a Boniperti, quando Ernesto Pellegrini (la cui società gestiva l’hotel di Villar Perosa dove la Juve era in ritiro) diventò presidente nerazzurro: “Giampievo, il nostvo cuoco ha compvato l’Intev”.
Divertirsi solo quando si odia
Non diremo qui di Ronaldo (quello sommo, sebbene neppure l’altro sia male) e Iuliano, e nemmeno del fallaccio di Pjanic. Non ricorderemo scudetti di cartone e schede telefoniche, non staremo a guardare quel dito, medio, che Antonio Conte nerazzurro rivolse ad Andrea Agnelli: sempre meglio puntare alla luna. Però, qui sulla terra, Juve e Inter si divertono solo quando si odiano, con virgolette e senza.
La gestualità di Mourinho
Quando la Juventus sfilò sul bus scoperto per lo scudetto 2013, un euforico Buffon inalberò un cartello su cui c’era scritto: “5 maggio godo ancora”. Però i nerazzurri, tre anni prima, avevano goduto a loro volta non poco, infilando quel triplete che resta unico nella storia del nostro pallone. Demiurgo Mourinho: lui sapeva esibirsi in gestualità anti-bianconere in perfetta linea con un secolo di livore.
La tradizione di starsi sullo stomaco
Perché questa è una faccenda di sentimento prima che di classifiche: se le vittorie e le sconfitte si contano, la passione, compresa quella più nera, invece si pesa, sempre. Starsi sullo stomaco è una questione di sincerità e tradizione: mica sono tutti sportivi come Sinner, e comunque chissà cosa si agita davvero nel suo profondo, chissà quali demoni il ragazzo riesce per ora a tenere a bada. Uno sforzo che nessuno juventino e nessun interista ha voglia di fare: il nemico indossa quasi le stesse righe, anche se con le seconde tinte diverse, siano bianche oppure azzurre. Ma a nessuno sfugga quel nero d’inchiostro che è colore dominante su entrambe le divise, il nero/notte di un’oscura passione. Perché loro non lo ammetteranno mai, però quanto si somigliano.