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Juventus, Yildiz e David con i calzettoni alla Sivori

La rubrica “La finestra sul cortile” di Angelo Carotenuto

Stiamo tutti cercando una via, stiamo tutte e tutti con gli occhi posati su Igor Tudor e sulla Juve per capire cosa aspettarsi, dove stia la sua natura, se negli otto gol segnati a Inter e Borussia oppure nei sette gol subiti. Stiamo guardando gli schemi e i numerini, il 3-4-2-1 e i cambi, la mappa del calore e le percentuali del possesso palla, a caccia di un indizio o di una traccia.

Errore. È più giù che bisogna guardare: i calzettoni. I calzettoni di chi si scambiava la palla là davanti. Se nella logica di Agatha Christie un indizio è un indizio, due sono una coincidenza e tre fanno una prova, allora quattro sono Cassazione, e quattro sono gli juventini che hanno giocato la prima di Champions con i polpacci scoperti, alla cacaiola si diceva un tempo, quando lo faceva Sivori.

Bassi li porta Yildiz, fedele all’iconografia dei numeri 10 impertinenti, quelli capaci di cavare da uno scrigno un diamante luminoso e metterlo all’incrocio dei pali come faceva Del Piero, e per giunta in coincidenza del trentesimo anniversario tondo tondo di un gol simile segnato proprio da Alex al Borussia.

Bassi li portano David e Openda, i due acquisti che hanno cambiato la maniera di attaccare della Juve rispetto a un anno fa.

Bassi li aveva pure Cambiaso, la definitiva dimostrazione che nei dettagli abitano le verità diaboliche, e la verità diabolica sulla Juventus sta nella sua totale indifferenza agli urti.

Abbassato, arrotolato, scosceso: in ogni caso il calzettone che lascia scoperta la tibia è un modo di essere prima che di vestire.

Gianni Mura lo chiamò una volta “l’indice indubitabile di scarsa attenzione ai colpi degli avversari”. Gianni Brera, l’inventore del marchio “alla cacaiola”, lo considerava un rischio per Gianluca Vialli (“vorrei vederne meglio protetti gli stinchi: è un tipo che dribbla, non può permettersi di gibollarsi le gambe ad ogni tocco”), un azzardo per Salvatore Bagni, un difetto per Hans-Peter Briegel (“unico aspetto sgradevole nella sua morfologia stilistica”). A tutti quelli che “si esimono dal corazzarsi gli stinchi” suggeriva pudore e prudenza. Omar Sivori raccontò che gli dava fastidio l’elastico perché gli toglieva sensibilità alle gambe. Non era una faccenda estetica e nemmeno filosofica, più banalmente era circolazione del sangue, ma sotto sotto pensava che i difensori lo avrebbero picchiato meno: non si imperversa su uno che si presenta disarmato.

Quando in omaggio a Sivori li tirò giù pure Mario Corso, il suo cantore Edmondo Berselli vedeva in lui “l’estraneo, l’indefinibile, l’alieno. Dal suo stato di pigro dormiveglia – scrisse ne Il più mancino dei tiri – Corso è in grado di estrarre guizzi serpigni, invenzioni capaci di tramutarsi in incubi per qualsiasi difesa”.

Il calzettone abbassato è una dichiarazione di sé. È consapevolezza, sicurezza, confidenza. C’è chi vede nell’atteggiamento di Tudor la ricerca di un equilibrio, chi gli rimprovera di uscire dal blocco basso solo quando è tempo di disperazione, chi ammira il carattere che è già riuscito a dare alla sua squadra. È tutto giusto, tutto vero, ma nulla dice più cose sulla prossima Juve di quei calzettoni, a cominciare dalla fiducia nei propri mezzi, dalla auto-certificazione di essere degni di portarli, come un Napoleone che si incorona da solo imperatore.

Il calciatore alla cacaiola è l’equivalenza di un pugile che tiene la guardia bassa. In genere stavano sul ring portando scarpini con le frange. Li lanciò Muhammad Ali e dopo di lui li misero tutti quelli che volevano dichiararsi sensibili alla danza e all’eleganza, a tutte quelle doti che nella boxe possono farti diventare una leggenda oppure un sacco percosso dai pugni avversari. Le frange le portava Nino La Rocca, il nome scelto da Cheick Tidjani Sidibé per sedurre, incantare e pugilare sotto la coltre di fumo delle suggestioni. A lungo quell’Italia si chiese se il nuovo fenomeno fosse lui che chiedeva la cittadinanza a Sandro Pertini dopo ogni match oppure Patrizio Oliva che invece mandava un bacio al figlio lontano. Oliva era più attento a schivare colpi che a battagliare. Eppure le frange le portava pure lui.

Prima che Totti lanciasse il cerchietto sulla fronte (oggi lo portano Calafiori e Modric), prima che Ronaldinho avesse la bandana a fascia, pure i difensori scoprirono la semiotica del calzettone, e anziché togliere aggiunsero. Se i 10 si sfilavano i parastinchi, loro mettevano le ghette, un secondo calzettone bianco sopra quello colorato, all’altezza delle caviglie. Ce l’aveva Rudy Krol, lo imitarono Sebino Nela e Ubaldo Righetti. Era una dichiarazione di diversità.

Quando sono intervenute le regole e del parastinchi non si può più fare a meno, la tecnologia è arrivata in soccorso degli estrosi, cominciando a produrne di piccini, compatibili con la ribellione del polpaccio unido che jamás será vencido. A Jack Hinshelwood ne cadde uno durante la partita del Brighton contro l’Arsenal, l’arbitro lo raccolse e glielo restituì. Pareva che gli stesse offrendo uno di quei panini che ti portano con l’aperitivo. Era minuscolo. Ce ne sono ormai da 200 euro e raccolgono dati sulle prestazioni, raccontano le loro verità su passaggi e tiri, usano la geolocalizzazione. Le informazioni finiscono dentro una app e viene utilizzata dagli allenatori o dalle aree scouting.

Eppure certe volte basta l’occhio. Basta guardare il calzettone per capire che sta nascendo una squadra sicura, indifferente a una ferita, irriverente, appariscente. Peccato aver lasciato andare Huijsen. Con lui gli Sfrontati sarebbero saliti a cinque.

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