SALISBURGO – Jurgen Klopp sorride, come e più di sempre, in quella che lui stesso definisce “la più lunga conferenza stampa nella storia del calcio austriaco”. In realtà, è il discorso della corona come “Head of global soccer”, ovvero capo dell’area calcio di Red Bull, la multinazionale delle bibite (6 miliardi di lattine vendute all’anno) che dopo Salisburgo, Lipsia, New York, Giappone e Brasile ha messo le mani su uno degli allenatori più importanti al mondo per trasformarlo in qualcosa che non c’era.
Però, Klopp, scusi, ma lei qui l’allenatore non lo farà più. Non le sembra strano?
“Dopo 25 anni in panchina e oltre mille partite, senza contare le amichevoli, avevo deciso di smettere. Troppe conferenze stampa, troppo tutto. Poi è arrivata questa opportunità: coordinare il lavoro degli altri, mettendo a frutto la mia esperienza. Così ho accettato”.
Dunque, non la vedremo mai più in panchina?
“Non per i prossimi cinque anni. Qui alla Red Bull non toglierò il posto a nessuno, anche se nella mia pancia resto comunque un tecnico, e lo resterò sempre”.
A proposito di calcio nel mondo: non è che la Red Bull verrà in Italia e comprerà davvero il Torino?
Interviene Oliver Mintzlaff, a.d. Progetti e Investimenti della multinazionale: “La serie A è un torneo prestigioso, però non abbiamo alcuna intenzione di fare nuove acquisizioni nel calcio. Siamo a posto così”.
Klopp, adesso come definirebbe sé stesso?
“Penso di essere un medico del calcio, e posso offrire qualcosa di buono non solo in campo. Cominciando col dire che si gioca troppo, e questo è il motivo dell’aumento degli infortuni. Bisogna capire che ci sono tanti sport belli che si possono amare e seguire in televisione ogni giorno, non per forza il football”.
Significa che lei lo ama di meno? La sua visione romantica è messa in crisi dal modello finanziario di chi acquista club come nuove filiali commerciali?
“Il mio amore per il calcio non si discute, ho la mia visione ma rispetto quella di tutti. Serve romanticismo e modernità per far crescere tutti i club per i quali mi appresto a lavorare: la leadership comincia dall’ascolto, ed è quello che farò. Prima di insegnare, tuttavia, bisogna imparare. Ma sia chiaro che chi ha i soldi, vince di più”.
Cosa vuol dire essere Klopp?
“Per quanto riguarda il calcio, all’80 per cento mi è andata bene. Per il resto ho avuto alti e bassi, come tutti. Non vado in pensione, ho solo cambiato lavoro. Cercavo un nuovo inizio e l’ho trovato qui: sto rivivendo sensazioni che ricordavo un quarto di secolo fa”.
Red Bull è un’azienda mondiale: anche il calcio ormai lo è?
“Vuol dire che farò giocare a pallone Verstappen”.
Lei ha scelto un compito che a questi livelli non esisteva: si sente un pioniere? Ha nostalgia?
“No, nessuna, neppure di Liverpool dove ho vissuto il mio ruolo sempre al massimo, dove sono diventato una persona diversa e dove continuo a sentire i giocatori e tanti amici. Però ho scelto una nuova strada dopo nove anni di incredibili emozioni inglesi”.
A proposito, e se al Manchester City togliessero davvero i titoli vinti per il mancato rispetto del fair play finanziario?
“Ragazzi, se succede comprate i biglietti aerei che poi vi aspetto a casa mia a Monaco: la birra per festeggiare la metto io, e la sfilata la facciamo in giardino. Visto, che titolo vi ho dato?”.
Sente pressione? Le mancherà, nel caso, non sentirla?
“No davvero. Esiste la pressione giusta che aiuta a vincere, ma c’è anche quella sbagliata, eccessiva, che può rovinare tutto. Mi piace piuttosto parlare di energia, quella che dovrò trasmettere a chi lavora con me”.
I suoi principali obiettivi?
“Vincere facendo scouting, lanciando nuovi talenti, ma anche essere riconoscibili. L’identità conta. Voglio aprire le menti per creare un grande team, sarà un fantastico lavoro di gruppo. Sento feeling e amicizia: sono qui per condividere cose e togliermi altre soddisfazioni”.
Anche se i campioni, e le squadre Red Bull, sono piuttosto giovani. Pagherete l’inesperienza?
“Non sono venuto qui per cominciare a perdere. Dare buoni consigli sarà parte del mio lavoro, ma anche prendere decisioni”.
Come quella di portare la vostra azienda ad acquisire nuovi club?
“Non spetta a me, io non sto da quella parte del tavolo”.
Si definisce un medico del calcio? Altri consigli per le cure?
“Non esiste una medicina uguale per tutti. La realtà giapponese è molto diversa da quella brasiliana, e quella brasiliana lo è rispetto a quella americana o europea. Dovrò coordinare molte situazioni differenti, mi piace, già sento una grande responsabilità”.
Da dove organizzerà il lavoro?”Il mio ufficio è il mondo, a parte Monaco di Baviera, l’eccezione”.
Ha un pensiero speciale per Salah?
“Un caro ragazzo, un campione e un formidabile ambasciatore del calcio. Gli auguro di restare a Liverpool ancora per cinque anni”.
È stato difficile decidersi per il grande salto?
“No, perché se non ti senti più felice al 100 per 100 in quello che fai, vuol dire che è arrivato il momento di cambiare. Io l’ho fatto perché in questo nuovo ruolo penso di poter migliorare il mondo del calcio. Ho 57 anni e sono felice. Non chiedo altro”.