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Lazio, l’anno della rivoluzione. La scommessa di Baroni dopo gli addii eccellenti

La serie sulle big italiane. Il calendario potrebbe dare una mano al nuovo allenatore, che con un buon inizio di campionato potrebbe aiutare i tifosi biancocelesti a lasciarsi alle spalle le partenze di Immobile, Luis Alberto e Felipe Anderson

Venezia in casa, Udinese fuori, Milan in casa, Verona in casa: la prima sequenza di campionato della Lazio – le quattro gare che precedono l’inizio delle coppe – viene vissuta a Formello come la sliding doors della stagione. Fai dieci punti e vai più o meno in testa, la fiducia testimoniata dai 26mila abbonati si evolve in entusiasmo, i mugugni si placano e l’anno della grande rivoluzione assume le sembianze dell’opportunità. Se viceversa butti via questo bel calendario il peso degli addii diventa insostenibile, il passato ti tira per i piedi, la contestazione a Lotito riparte definitivamente e l’aria si fa irrespirabile. Marco Baroni ha capito al volo l’atmosfera che lo circonda, in quella che è la grande occasione innanzitutto per lui, e le voci interne al club raccontano di una preparazione un po’ spinta per correre subito come se fosse ottobre.

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Il fiuto di Lotito per gli allenatori

Baroni ha una solida esperienza di lotta per la salvezza e quindi conosce l’arte di leggere un calendario, magari dice anche lui “prima o poi devi affrontarle tutte” ma non lo pensa, sa che nel corso di una stagione ci sono i mini-cicli di tre partite che la indirizzano, e ai quali devi arrivare al meglio. Baroni l’anno scorso ha salvato il Verona due volte, perché a gennaio gli hanno cambiato più di mezza squadra e lui l’ha ricostruita in un amen: è un tecnico di qualità che conferma il senso di Lotito per gli allenatori, forse la sua capacità più chiara. Da Petkovic a Pioli, da Simone Inzaghi a Sarri fino a Tudor, da 15 anni la panchina laziale è occupata da figure non banali. Sì, persino Tudor, che pure è durato come un gatto in tangenziale, ha vinto in primavera cinque delle sue nove partite, e una sola ne ha persa (ma era il derby): non avesse rotto con lo spogliatoio, seccato per i suoi metodi, forse avrebbe trovato un modo di superare i primi dissidi di mercato con la società. Così, non aveva più senso.

Lazio, prima stagione senza senatori

Il numero magico della grande rivoluzione è otto. Se ne è andato Ciro Immobile dopo 8 anni. Se ne è andato Luis Alberto dopo 8 anni. Se ne è andato Felipe Anderson dopo 8 stagioni (in due tranche, 5 più 3). E un anno fa se ne era andato Sergej Milinkovic-Savic, anche lui dopo 8 anni. Questa non è cronaca, ma storia della Lazio: assieme i quattro hanno vinto una Coppa Italia e due Supercoppe, si sono spinti due volte agli ottavi di Champions (Milinkovic una) e col secondo posto del 2023 hanno centrato il miglior piazzamento del club dopo i due scudetti. Meriterebbero l’intitolazione di un’ala di Formello anche per come se ne sono andati: soltanto una stagione di brodo davvero allungato, l’ultima, nella quale il loro peso politico-ambientale non ha aiutato l’affermazione dei sostituti programmati. Per dirne una: Castellanos ha mostrato qualità a intermittenza, e senza continuità era complicato tenere un Immobile in panchina.

Lazio, rivoluzione dopo il mercato

Ma il momento di separarsi era giunto. Il problema delle stagioni costituenti – e questa lo sarà – è la tentazione di volgere lo sguardo all’indietro ai primi contrattempi, e la partenza sognata da Baroni è un antidoto a tutto ciò. Sono arrivati giocatori interessanti: Noslin e Tchaouna sono star della zona salvezza in cerca del salto di qualità, Nuno Tavares è un gran terzino un po’ fragile (altrimenti non sarebbe qui), Castrovilli è la scommessa su un talento disperso che potrebbe rendere ottimi dividendi. Manca il giocatore per cui precipitarsi a Fiumicino, e questa è la vexata quaestio dell’era Lotito, la sua refrattarietà al sogno ingigantita dalla natura ipercritica del tifoso laziale e dal contrasto con l’entusiasmo anche ingenuo ma fresco del tifoso giallorosso, che all’aeroporto ci va pure per il terzo portiere. La logica dei conti sta col presidente, ma il calcio non è fatto di sola logica, qualcosa alla passione deve concedere altrimenti è puro esercizio di stile, o meglio di potere, argomento che con Lotito fa scopa. Le guerre dei cent’anni che combatte in Lega, in Federazione e adesso anche in Parlamento lo legano ancor di più alla Lazio, o lo distraggono? Qual è il suo interesse, il club che presiede o le porte che gli apre? Sepolta sotto un astio di ritorno – ci riferiamo ovviamente alla critica civile, per le minacce c’è la polizia – non è difficile distinguere la stima di almeno una parte della tifoseria. Magari con i suoi metodi spoetizzanti, ma Lotito ha fatto vivere alla Lazio vent’anni sereni e tutto sommato benestanti.

Lazio, il calendario aiuta Baroni

Due stagioni fa Sarri ottenne una quadratura del cerchio quasi miracolosa: i suoi 74 punti erano una mela divisa perfettamente a metà tra casa e trasferta (37-37) e fra andata e ritorno (37-37). L’anno scorso, segnato dalle dimissioni del tecnico toscano e dal breve interregno di Tudor, la Lazio ha segnato pochissimo (49 gol, il minimo dal 2010) e incassato abbastanza (39 gol, sesta difesa): la coperta va quindi allungata in entrambe le direzioni, e qui sta il difficile per Baroni. A fargli coraggio c’è lo spirito che questa squadra possiede, dare il meglio nelle occasioni che contano, a costo di congedarsi in lacrime: la Lazio migliore della scorsa e stinta stagione è stata quella degli ottavi di Champions col Bayern. Non aveva chance, non aveva remore.

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