Quando avevo quattordici anni, rinunciai a vedere la prima partita dell’Italia ai Mondiali con i miei amici, per tornare a casa e vederla con mio padre. Solo che lui era convinto che io la vedessi con i miei amici, e andò a casa di amici anche lui. Quindi io tornai a casa, accesi la tv da solo, aspettandolo, e dopo meno di un minuto l’Italia prese gol dalla Francia. Ero scioccato. Ero solo, sperduto, mi chiedevo cosa stava succedendo, aspettavo i Mondiali da mesi, e dopo cinquanta secondi l’Italia era sotto uno a zero e mio padre non c’era; stava crollando tutto. Pochi minuti dopo, sentii la chiave che girava nella porta, mio padre che si precipitò accanto a me sul divano farfugliando “non avevo capito che tornavi…” Tutto si rimise a posto, e infatti l’Italia poi segnò tre gol. Quattro anni dopo, vincemmo la finale e mio padre, non lo dimenticherò mai più per tutta la vita, saltava sul divano urlando. Ho vissuto, con amici, parenti, fidanzate, sconosciuti, ogni genere di emozione, dalle eliminazioni nel girone, ai rigori persi e vinti, ed ero perfino allo stadio San Paolo quando l’Argentina ci eliminò in semifinale ai rigori (non so ancora se resta comunque un bel ricordo, ma so che è stato epico anche se triste).
Quindi cosa è successo l’altra sera quando l’Italia ha preso tre gol dalla Norvegia? E perché ce ne stiamo accorgendo solo adesso? Viviamo tempi complicati, e quindi è bene circoscrivere: si tratta di calcio, quindi è trascurabile. Ma ogni tipo di spettacolo esiste anche come conforto alla complessità dell’esistenza, quindi è legittimo provare emozioni. Ecco, l’altra sera è successa una cosa che ha a che fare con l’estate prossima, e di cui ci accorgiamo di solito troppo tardi: ci saranno i Mondiali di calcio, ci saranno decine e decine di partite di notte e di giorno, ci sarà la solita atmosfera che coinvolge la passione di interi Paesi; e a questo punto è di nuovo possibile che, per la terza volta, l’Italia non parteciperà. Non è affatto certo, ma la strada è diventata complicata, ed è una condizione che nella vita di noi non più ragazzi era inimmaginabile.
Mio figlio sta per compiere diciassette anni, e quindi l’ultima volta che l’Italia è stata ai Mondiali, nel 2014, ne aveva appena compiuti sei e le partite di calcio non erano nel suo orizzonte. Da allora, io non ho potuto vivere con lui quello che ho vissuto con mio padre. E lui finora non sa cosa sia questa cosa che per me ha scandito la crescita. Non si tratta di maschi (semplicemente, per esempio, a mia figlia non importa nulla del calcio). Ma i Mondiali scandiscono il tempo, gli anni. Le estati ogni quattro anni. La gente dopo le vittorie dell’Italia si butta nelle fontane delle piazze di ogni città, ci sono cortei con i clacson, e durante le partite le strade sono vuote, e all’improvviso dei boati che fanno tremare i vetri. So dov’ero a ogni partita dell’Italia dei vari Mondiali, mi ricordo l’attimo in cui Baggio tirò il rigore alto o i gol di Rossi di Italia-Brasile. Mi ricordo tutto, e mi ricordo soprattutto in che momento della vita ero, cosa facevo. Mi ricordo per esempio un esame all’università la mattina e il ritorno felice in macchina con una mia amica pensando che c’era la partita dell’Italia ai Mondiali e la potevo guardare con leggerezza (perdemmo contro la Francia di Platini). Le cose importanti della vita sono altre, ce lo ricordano le persone intorno e ce lo ricorda la vita stessa; ma le partite, le canzoni, le chiacchierate davanti ai bar, i giri in motorino per la città, costruiscono un’educazione sentimentale che contribuisce a diventare adulti. Una giovinezza senza le emozioni di quelle partite, senza quello stupido sentimento di appartenenza, senza gli abbracci con gente che non hai mai visto appena dopo che Grosso ha segnato quel gol, è una giovinezza a cui manca qualcosa, è una giovinezza in cui è come se uno non avesse mai cantato o ballato o urlato contro il vento. Tutte cose così insignificanti che non ne tieni conto; ma poi la verità è che sono più importanti di quello che credevi.
Quando all’improvviso la presenza dell’Italia ai Mondiali ci è stata tolta, siamo rimasti scioccati. E siamo così ostinati nelle nostre convinzioni, che non ci è sembrata una cosa ripetibile. E invece si è ripetuta e si può ripetere.
E la ripetizione è sempre uguale, in un modo che, devo dire, sembra raccontare una situazione molto tipica italiana. Noi non ci accorgiamo davvero che c’è una partita importante oggi per domani, non ce ne importa davvero, casomai quella sera non la vediamo, abbiamo altro da fare; ci accorgiamo di non partecipare ai Mondiali solo quando succede che non partecipiamo ai Mondiali. In questi giorni contava di più chi fosse il nuovo allenatore dell’Inter o se sarebbe arrivato Modric o De Bruyne che la partita evidentemente decisiva contro la Norvegia. Non importava davvero ai giornali perché non importava davvero a noi. E in questo, forse, c’è anche una certa presunzione: non abbiamo partecipato a due Mondiali ma restiamo tra i più forti, e quindi non è possibile che accadrà di nuovo. E adesso, che praticamente la situazione è già disperata, pensiamo che non potrà succedere, salvo poi farne una tragedia quando la tragedia (calcistica, per carità, quindi sopportabile come del resto l’abbiamo già sopportata) si è già compiuta.
Accorgersi delle tragedie quando le tragedie sono già successe, non prevederle né tentare di fermarle, e lamentarsi molto quando non si può fare più nulla: non bisogna sottovalutare lo sport, e il calcio in particolare, in Italia, perché racconta sempre molto di più di quello che è.