Gentile Direttore,
il calcio è di fronte a un crocevia. Deve adeguare la sua democrazia interna alle dimensioni e alla complessità di un sistema che rappresenta il più grande laboratorio di passione, ma anche una delle prime economie del Paese, capace per ogni euro che riceve dallo Stato di restituirne venti in gettito fiscale e previdenziale.
L’assemblea
Per questo, interpretando sollecitazioni giunte da ambienti sportivi e istituzionali, ma anche dalla società civile, ho deciso di aprire una fase costituente. Oggi proporrò al Consiglio Federale la convocazione di un’assemblea straordinaria per modificare lo Statuto, cioè la Carta dei principi e delle regole fondamentali del nostro movimento. È un appuntamento ineludibile, anche dopo la conversione del decreto legge che riconosce alle leghe professionistiche un’equa rappresentanza, comprensiva del contributo economico apportato al sistema. Solo dopo sarà possibile votare per una nuova governance. Le elezioni, da me subito volute e indette per il 4 novembre, dovranno svolgersi tempestivamente secondo le nuove regole che ci daremo.
Che vuol dire, in concreto, adeguare la democrazia del calcio? Vuol dire trovare un equilibrio tra due dimensioni. La prima è la partecipazione. La Costituzione la riconosce e protegge come «il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme». Vuol dire oltre 1 milione di tesserati, 244 mila dirigenti, 40 mila tecnici, 33 mila arbitri, per dare solo alcune misure della diffusione che fa di questo sport il più universale fenomeno della civiltà. La seconda virtù riguarda la capacità di trasformare l’agonismo in spettacolo, e così produrre sviluppo e ricchezza. È un valore connesso a un primato di qualità che richiede un’organizzazione dotata di alta specializzazione.
Bastano queste considerazioni per capire che il calcio è, per dimensioni e livello di complessità, quello che si definisce un mondo. La cui cosmica alchimia sta nel rapporto ottimale tra professionisti e volontari. I primi costituiscono il vertice di una piramide, tanto più stretto quanto più posto in alto, e i secondi la base, tanto più larga quanto più situata in basso.
In tutte le democrazie sportive d’Europa questo rapporto si proietta nella stessa proporzione nei due organi della governance. Nelle assemblee generali di Inghilterra, Francia, Germania e Spagna, i rappresentanti dei professionisti sono tra appena un terzo e la metà di quelli dei dilettanti. E nel Consiglio Federale le proporzioni non cambiano: il peso dei professionisti è a Londra del 20 per cento, a Parigi del 7,1, a Berlino del 26,7 e a Madrid del 16,7.
A Roma i professionisti contano già il 34 per cento. Questa quota oggi è ritenuta insufficiente a rappresentare il volume economico che le serie maggiori, e in particolare la A, sviluppano a beneficio dell’intero movimento. Rafforzare la rappresentanza del calcio più ricco, per qualità e dotazione finanziaria, è insieme una rivendicazione della Lega di A e l’indicazione di una legge approvata in Parlamento. Si può e si deve fare, ben sapendo, però, che qualunque espansione di sovranità per uno dei componenti della governance comporta una corrispondente riduzione per un altro. Una piramide rovesciata, dove i pochi finissero per contare più dei molti, non sarebbe più il simbolo della sussidiarietà e dell’autogoverno degli sportivi, ma solo la giungla dei più forti.
Per questo il calcio ha, pur nell’autonomia dell’ordinamento sportivo, il dovere di trovare un equilibrio tra tutte le sue energie, facendo leva sullo spirito di solidarietà e sulla capacità di conseguire un compromesso virtuoso. Se questa sintesi venisse a mancare, la stessa autonomia rischierebbe di soggiacere a poteri autoritativi e surrogatori che non hanno una legittimazione interna al sistema. Da qui alla conclusione di questo percorso il mio impegno di federatore sarà diretto a scongiurare questa eventualità, e a promuovere la consapevolezza che niente difende meglio la democrazia e la sovranità del calcio quanto il senso del limite.