Tre gol su sei nelle semifinali europee sono stati segnati da bambini ai quali mancava molto la mamma. E’ necessario che la mamma manchi molto, quando si tratta di crescere. I bambini, uno dei quali in effetti non lo è più soltanto dall’altro ieri, sono Lamine Yamal e Dani Olmo (Spagna) e Xavi Simons (Olanda).
Loro tre, e moltissimi altri come loro (ne volete altri tre? Messi, Xavi e Iniesta) sono cresciuti, orfani ad honorem, alla Masia del Barcellona, luogo che è un po’ come il castello di Hogwarts, con la differenza che lì dentro diventano quasi tutti Harry Potter.
La Masia
Edificio sorto a inizio Settecento nei pressi del Camp Nou (ma dal 2011 esiste una nuova sede molto più funzionale, anche se assai meno suggestiva), la Masia era, ed è, il settore giovanile più importante e famoso al mondo, la leggendaria cantera blaugrana. I sessanta ospiti privilegiati rappresentano la scrematura di migliaia di piccoli aspiranti calciatori che condividono un sogno antico: essere scelti perché bravi.
Come i bambini di strada anche nostrani, che dal dopoguerra fino alla nascita delle scuole calcio a pagamento, concomitanti con la fine dei campetti e degli oratori (la crisi delle vocazioni non sta togliendo solo sacerdoti agli italiani, ma anche centravanti), speravano di essere notati da qualche osservatore, e convocati per il leggendario “provino”: chi lo superava, poteva trascinare una borsa più grande di lui, con la scritta della squadra importante.
Senza mamma e papà, ma con Cruijff e Guardiola
La Masia è la costruzione attigua alle ville padronali spagnole sin dall’epoca romana, poi convertita a dependance agricola: un posto, insomma, dove si semina e si raccoglie. La traduzione italiana era “vivaio”, fino a quando non è rimasto un nudo nome: dove non si crescono ma si collezionano bonsai di giocatori già formati, quasi sempre all’estero, presi attraverso procuratori che, di fatto, si specializzano nella tratta dei minori. Quasi come il ladro di bambini di Amelio, il quale però era un giovane carabiniere che agiva con le migliori intenzioni, ed era un film. Alla Masia del Barcellona mancano la mamma, il papà, i nonni e pure i fratelli. Ci sono, in compenso, due padri putativi, patriarchi biblici che si chiamano Cruijff e Guardiola, ai quali i cuccioli si ispirano e si uniformano. Anche se non è più una polleria d’allevamento (ma di galline, semmai, dalle uova d’oro), la Masia resta sì un luogo di inquadramento tattico, ma è soprattutto la palestra del libero talento. Su quei prati corrono i più bravi, spesso ragazzini figli del nostro tempo magnificamente liquido, provenienti da coppie miste e geografie ampie, frutto di contaminazioni, viaggi, paesaggi e passaggi che ad ogni giro arricchiscono la scelta e migliorano il prodotto.
Conta solo il talento
Nessuno, quando entra alla Masia, si sente chiedere quanto siano alti i genitori: il vivaio del Barcellona non sceglie i bambini un tanto al chilo e non li paga a peso. Anche in Italia, a un certo punto, cioè dopo il disastroso mondiale 2014, si ipotizzò una riforma dei centri federali e la nascita di un nuovo modello di formazione per gli allenatori: ecco i centri della gestione Tavecchio da un giorno a settimana, e poi quasi più niente. I risultati si vedono: non abbiamo quasi più calciatori, e di campioni neanche parlarne. Chi era piccolo negli anni Sessanta e Settanta, ancora ricorda la minaccia dei grandi a ogni marachella o votaccio a scuola: “Guarda che finisci in collegio!”. Ma ci sono consessi umani in cui la crescita procede occupando in tanti un camerone, arrampicandosi sui letti a castello, mettendosi in fila per lavarsi i denti o andare in bagno. Il vassoio in mano in mensa, possibilmente senza schiamazzi, e a letto presto la sera perché poi c’è scuola e allenamento, poi ancora i compiti e la cena. Il tempo corre, così, e vola come un ragazzino su un campo di calcio, come quei tre che all’Europeo hanno fatto gol in semifinale, a nome di tanti custodi di un sogno pieno di grazia. Masia, ma di più magia.