Il principe dei telecronisti del calcio, il più amato e il più elegante, l’inimitabile e per questo imitatissimo Bruno Pizzul è diventato un gentiluomo di campagna. Dalla sua casetta nel verde a Cormons, profondo Friuli, ora osserva la natura che si sviluppa, in fondo, come una partita di calcio. Primo tempo, secondo tempo, le stagioni, i frutti, gli animali, il raccolto. Ma mai uno zero a zero. Qualcosa succede sempre.
Bruno, come va?
“Compatibilmente. Sapete, ho 85 anni, anche se mi difendo”.
Quell’avverbio è il più usato, non trova?
“Inevitabilmente. E ne abbiamo piazzato un altro!”
Da dove nasce la sua proverbiale cura per la parola?
“Credo dal liceo classico, e da quel vezzo giovanile di mostrare il proprio bagaglio culturale. Ma il mio particolare rapporto con il lessico mi ha portato anche non poche critiche da parte chi mi chiedeva più enfasi. Io, però, ho sempre pensato che fosse importante cercare un lessico vario all’interno di situazioni un po’ ripetitive come quelle di una partita di calcio. Non me ne vanto, mi viene così. E’ un istinto. Il mio linguaggio sono io”.
Quelli che amano l’enfasi, non hanno che da ascoltare le telecronache di oggi e saranno accontentati.
“Premetto che molti tra i miei giovani colleghi sono preparatissimi, però siamo sommersi da un diluvio di parole che distraggono e a volte infastidiscono, come se la partita non fosse al centro di tutto. Ho sempre pensato che la forma, quando ci si rivolge al vasto pubblico, sia anche sostanza. Non amo le frasi ridondanti, la valanga statistica e neppure l’uso smodato delle telecamere e delle inquadrature: rubano l’attenzione. Inoltre, oggi i giornalisti devono fare i conti con i social, a mio avviso un ingestibile vulcano di problemi”.
L’eccesso riguarda anche la tivù?
“A volte è come se la televisione volesse solo parlare di sé stessa. Alcuni giornalisti anche bravi, in conduzione si atteggiano a showman, a comici. Tutto ciò che è autoreferenziale, in questo mestiere non va bene. Il cronista non è un attore”.
Pizzul, la sua voce è ancora molto amata. Come lo spiega?
“La cosa mi imbarazza, perché non ho davvero fatto nulla di così importante o eroico, ho solo cercato di lavorare in modo apprezzabile e dignitoso, di comportarmi bene come quando facevo l’alpino alla scuola militare di Aosta. E ringrazio chi, negli ultimi tempi, guardando qualche mia apparizione televisiva ha perdonato alcune sbavature dovute all’età. Mai avrei pensato, da ragazzo, di arrivarci”.
Qual è stato il segreto?
“Prima di tutto l’amore di mia moglie Maria, la tigre, come mi piace chiamarla. Dipendo in tutto da lei. L’amore che dura nel tempo è una cosa bellissima, anche se oggi appare un po’ fuori moda. Io sono così pigro da non avere mai neppure preso la patente: Maria mi porta ovunque, e io a volte penso che se lei avesse mal di testa, io non saprei neppure mettere in moto la vettura. Sono una specie di Oblomov friulano, ammetto i miei limiti”.
Com’è la sua vita lontano dal calcio?
“Guardo gli uccellini che mi becchettano sul tavolo. Di fronte alla vetrata che dà sul giardino, io e mia moglie abbiamo creato un ristorante stellato per volatili. Ci sono i passeri, ogni tanto arriva l’upupa, passano le gazze e le tortorelle. E io, che a volte non ricordavo il cognome di una certa ala destra o di un certo mediano, ora mi applico per nominare con esattezza tutte queste creature del cielo. E poi abbiamo frequentazioni stagionali bellissime: tra poco tornerà il pettirosso, non uno qualunque ma sempre quello, il nostro amico che se ne vola via ai primi caldi e torna quando ricomincia il freddo”.
L’elogio della vita agreste è anche una distanza dal calcio di oggi?
“Continuo ad amarlo, naturalmente, però ci sono troppe esagerazioni. Questa storia degli arabi, per esempio. Mah… Preferisco osservare il passaggio delle stagioni, la crescita di un fiore: a Milano, dove pure ho vissuto tanti anni stupendi, era impossibile. Ho scelto il mio orticello, anche se a onor del vero devo ammettere che è sempre mia moglie a badarci: la terra è bassa, si fatica a stare chinati. Io invece prendo solo il meglio, mangio l’insalata appena cresciuta, le zucchine, bella la vita così. Dobbiamo proteggere la natura, il nostro pianeta è l’unica vera ricchezza che possediamo, invece lo stiamo torturando”.
Lei è stato anche un professore di scuola media. Come andò?
“I maestri sono fondamentali. Nel lavoro, ne ho avuti alcuni che sono stati fraterni amici, come Beppe Viola e Gianni Mura: mi mancano per quello che erano, per le persone che erano, ancor più che per il loro meraviglioso giornalismo. Mi manca quel modo allegro di stare insieme e fare bisboccia dopo avere scritto in modo impeccabile, anzi unico. I maestri: Mario Fossati, Emanuela Audisio, Vittorio Zucconi, voi di Repubblica siete stati molto fortunati”.
Si diceva di Pizzul in cattedra.
“Ho fatto il professore di lettere per tre anni, alle medie: insegnavo storia, geografia, italiano e latino. E ancora mi capita di incontrare ex allievi che sono diventati signori pelati o corpulente signore. Quando li incrocio in qualche borgata, immancabilmente si avvicinano e mi domandano: “Professore, si ricorda di me?” Allora mi faccio dire i cognomi, e la memoria rivive d’incanto. Insegnare era un mestiere stupendo, ti dava quel senso di utilità legato alla crescita delle persone più che al loro apprendimento. Invece il giornalismo sportivo è la sublimazione dell’effimero. Quando appresi di avere superato il concorso da telecronista, mi arrivò anche la nomina a professore di ruolo in storia e filosofia al liceo di Monfalcone. Devo dire che vacillai parecchio, non fu una scelta facile”.
Alla fine, però, nella classe che la ascoltava sono entrate milioni di persone.
“È andata bene, non senza qualche rimpianto dovuto forse all’età. Era una grande soddisfazione, da insegnante, verificare i progressi dei ragazzi non solo sul piano del rendimento, ma del comportamento”.
A proposito di ragazzi: lei ha tre figli e undici nipoti, una tribù.
“Il più piccolo di questi undici, una squadra!, è in terza media, il più grande si è appena sposato. Gli ho detto che adesso punto a diventare bisnonno, anzi nonno emerito”.
Tornando a Beppe Viola, è vero che la fece arrivare in ritardo alla prima telecronaca della sua vita?
“Verissimo. Dovevo descrivere Juventus-Bologna di Coppa Italia per la Rai, in differita, sul campo neutro di Como. Era il 1970. Verso le dieci del mattino stavo per salire sull’auto aziendale per recarmi allo stadio, quando Beppe mi vide e mi disse: “Ehi, ma dove vai a quest’ora? Non lo sai che la partita comincia alle tre? Manda via l’autista e vieni a pranzo con me, per il resto ci sarà tempo”. Mi portò nella trattoria milanese in via Londonio dove, a volte, trovavamo anche i calciatori, che so, Rivera o Pierino Prati. Insomma, il tempo passò e non considerammo che quel pomeriggio mezza Brianza si sarebbe messa in auto alla volta dello stadio di Como, dove arrivai che la gara era iniziata da un buon quarto d’ora. Per fortuna non si andava in onda in diretta, e la sera in studio sistemai un po’ le immagini e il commento”.
Ci furono conseguenze?
“Il giorno dopo venne avviata dalla Rai una specie di indagine interna, che portò a identificare il colpevole. Quando si seppe che si trattava di Beppe Viola, i capi furono clementi e fui perdonato, ma con una raccomandazione: stare più attento a chi frequentassi. Superfluo aggiungere che non ci sono stato attento mai”.
Pizzul, “tutto molto bello” è stato un suo tormentone classico. Le appartiene?
“Mi piacerebbe fosse uno sguardo sulla vita, dove non tutto è molto bello, ma tanto lo è. Bellissimo è il canto del gallo la mattina, bellissimo il suono delle campane e bellissime le voci dei ragazzini che giocano all’oratorio. A volte arriva qui qualche turista cittadino che fa l’elogio della campagna, e poi non sopporta i galli. Eh no, non va”.
“Non va”: un altro tormentone.
“Inevitabilmente”.