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Luca Marchegiani: “Eriksson non si è mai piegato alle storture del calcio”

Intervista all’ex portiere della Lazio: “Elegante ed esigente, parlava sotto voce in un mondo in cui urlare è percepito come segno di forza. Del suo tour di addio
si è goduto ogni attimo”

Luca Marchegiani, portiere della Lazio campione d’Italia e oggi commentatore a Sky, del suo allenatore ha amato tutto. Compresi gli ultimi mesi, in cui Eriksson ha deciso di raccontare al mondo la propria condizione. “Ho molta ammirazione per come ci ha voluti lasciare. Ha vissuto fino alla fine la vita che voleva, sempre con il suo stile. Era gentile, educato, perbene. Non si è mai piegato alle storture del nostro mondo. Parlava sottovoce, in un calcio in cui urlare viene scambiato per segno di forza. Non gli ho mai sentito alzare la voce”, dice Marchegiani.

Sven Goran Eriksson festeggia coi giocatori della Lazio la Coppa delle Coppe 1999

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Del lungo saluto di Eriksson alla vita, cosa l’ha commossa di più?

“Il saluto all’Olimpico. Ma anche l’idea romantica di sedere per una volta sulla panchina del Liverpool. Ha progettato ogni momento e se l’è goduto. Il clima negli stadi non poteva essere di festa, ma è stata una cosa bella, in linea coi suoi insegnamenti”.

Cosa le ha lasciato?

“La consapevolezza che il calcio non va vissuto come un alternarsi di esaltazione e disperazione. Se abbiamo vinto lo scudetto, è perché ci ha insegnato a dare il giusto valore alle cose. Ci ha protetto dalle pressioni fortissime a cui eravamo sottoposti”.

Come ha fatto?

“Ci ha aiutato a non spaventarci per la contestazione di una parte del tifo. A non buttarci giù per un articolo di stampa critico. A non darci per vinti nemmeno quando a poche giornate dalla fine sembrava che non ce l’avremmo fatta. E lo ha fatto con la sua enorme calma. Non ho più conosciuto nessuno così. Riusciva a riprenderti e motivarti senza mutare tono e atteggiamento. Era credibile, autorevole. E nel nostro sport è stato un innovatore”.

Cosa ha portato alla Serie A?

“La sua prima squadra italiana, la Roma, faceva un gioco a zona moderno, dinamico, stupefacente per il tempo. Non vinse lo scudetto ma ci andò vicino. Si è sempre parlato di lui come di un’ottima persona e un eccellente gestore di uomini, capace di adattarsi al materiale umano a disposizione. Tutto vero. Ma è anche stato un grande allenatore, che proponeva un calcio ultra offensivo. L’anno prima dello scudetto giocavamo con due ali, due punte e come mediani Almeyda e Mancini”.

Tanti giocatori della Lazio campione d’Italia oggi allenano.

“Non è un caso. Amava e sceglieva giocatori che avevano capacità di leadership e intelligenza calcistica. Mancini è l’esempio. Lo portò con sé dalla Sampdoria e di lui si fidava al punto da lasciargli gestire in autonomia situazioni di campo complicate, pur restando indiscutibilmente lui l’allenatore. Un ennesimo segno di forza”.

Era scaramantico?

“Per niente. Anzi, considerava la scaramanzia come un errore e un limite. Pensare che esistano eventi che portano sfortuna era esattamente il contrario del suo credo: dare importanza alle cose importanti, senza cedere alla negatività. Ce ne vorrebbero di più di persone così”.

È vero che in ritiro non lo si vedeva quasi?

“Verissimo. Non partecipava molto vita di squadra. Finiti gli allenamenti, si ritirava con il suo staff. Non faceva il gendarme, non ci controllava, non faceva il giro delle stanze la sera per assicurarsi che dormissimo. Voleva che noi giocatori percepissimo la sua fiducia, e per questo non ci stava addosso. Ovviamente, quella fiducia andava ripagata, in allenamento e in partita. Essere gentili non significa non essere esigenti. Lui era entrambe le cose”.

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