Il possibile prossimo Pallone d’oro adesso è un uomo con dei baffi seri, il fisico a posto e ogni creazione accessibile ai suoi piedi, lui che una volta diceva che “vorrei essere soltanto definito un buon dribblatore”. In effetti quello faceva, nelle due ore di calcio quotidiano: dribblare, dribblare e basta, continuamente, godendo di quanto poco riuscissero a fermarlo. Però c’era anche tutto il resto: le notti passate a giocare a Fortnite, il cibo spazzatura ordinato compulsivamente (a Barcellona non c’era rider che non conoscesse il suo indirizzo), il disordine in casa e quindi anche dentro di sé: uno si immagina il talento sprecato tra donne e alcol e macchinoni, come George Best, Ousmane Dembélé stava invece per essere fregato da hamburger, patatine, kebab e videogiochi.
La nuova vita di Dembélé
Luis Enrique gli ha cambiato definitivamente la vita, togliendogli l’ultimo vizio che gli era rimasto, il dribbling, e convincendolo a far combaciare il suo talento – smisurato come in ogni predestinato – con le esigenze di una squadra, di una partita, del gioco del calcio: adesso fa il centravanti finto (ovvero: fa l’attaccante che fa tutto), segna in un anno i gol che prima segnava in cinque e sprigiona, finalmente e una volta per tutte, tutta la classe che gli era stata riconosciuta quando era un ragazzino esile con due gambette così, un normanno di banlieue con la stessa infanzia difficile di molti figli di immigrati, mamma senegalese-mauritana e padre maliano che ha abbandonato presto la famiglia e non lo ha cresciuto.
Il ritardo per il sonnellino, gli scarpini dimenticati
Dembélé è stato fin da piccolo un genio distratto. La sua specialità, per anni, sono stati i ritardi, puniti implacabilmente con multe ed esclusioni: nel 2018 avrebbe potuto incontrare l’Inter per la prima volta ma finì in tribuna per essere arrivato tardi all’allenamento della vigilia. Dormiva così profondamente che non sentì le decine di telefonate che gli fece il Barcellona per capire dove diavolo si fosse ficcato. Alla prima partita da professionista con la squadra che l’ha cresciuto, il Rennes, si dimenticò a casa gli scarpini. Ne rimediò un paio di due misure più grandi e fece anche un paio di gol. Finché era un minorenne alle prime armi gli si perdonava quasi tutto, il problema vero cominciò quando il Barcellona lo prese dal Borussia, che l’estate precedente lo aveva pagato 15 milioni, per 105 milioni più bonus (fino a quel momento, la spesa più grande mai sostenuta dai catalani sul mercato) per rimpiazzare Neymar, passato al Psg.
I videogiochi e il cibo spazzatura
Il ragazzo cominciò bene ma poi iniziò a chiudersi in sé stesso, a passare le notti alla console, ad abusare del junk food, ad allenarsi di malavoglia e di conseguenza a infortunarsi di continuo: a Barcellona ha saltato 141 partita in sei anni. Una volta impiegò dieci minuti per infilarsi le scarpe e sostituire Messi che si era infortunato, e Rakitic fu impietoso: “Oggi abbiamo giocato con uno in meno”. In campo perdeva dieci volte i palloni che recuperava, i dribbling gli riuscivano sempre meno, persino Deschamps (che partì con lui titolare al Mondiale russo, quello vinto, ma poi lo escluse: tra semifinale e finale non mise piede in campo) lo rimproverò pubblicamente – “Non è cosciente delle esigenze del football moderno” – e lo tenne fuori dalla nazionale per due anni e mezzo, tra il 2018 e il 2021 e per un altro anno tra il 2021 e il 2022. Un compagno del Barcellona spifferò ai giornali che “quando gli parli non capisce, o dimostra di non voler capire”.
Il cuoco cacciato e la casa distrutta
Il Barcellona gli mise accanto due assistenti ad personam, incluso un cuoco, e lui li mandò via. Il padrone della casa dove aveva abitato a Dortmund gli fece causa perché aveva lasciato l’abitazione in condizioni disastrose, tra disordine, sporcizia e incuria, chiedendo 20.725,76 euro di risarcimento. Ogni tanto sfoderava prestazioni di altissimo livello e ciò non faceva che aumentare le perplessità: “Con lui si gioca in dodici o in dieci, non c’è mai una via di mezzo”, dicevano a Barcellona.
La cura dello chef stellato
Ma poi, piano piano, barlumi di maturità hanno cominciato a illuminarne la crescita. La svolta è arrivata nel 2021, quando anche l’ultimo cuoco spagnolo che gli aveva messo a disposizione il Barcellona alzò bandiera bianca. Il suo posto venne preso da uno chef stellato francese che s’era stufato d’avere un ristorante e un poco per volta ne cambiò le abitudini alimentari, che poi incisero anche sulle altre: “Ci vollero quattro mesi di adattamento, cominciammo con zuppe, purè, piatti semplici. E il corpo reagì subito bene”. I muscoli recuperarono elasticità, gli infortuni diventeranno sempre più radi, il dribbling ritrovò lo smalto giovanile e un paio di baffi gli tolsero dal viso quell’espressione da ragazzino.
Dal Barcellona al Psg per 50 milioni
Il Barcellona non si volle in ogni caso fidare in fondo, e quando nel 2023 è arrivata l’offerta di 50 milioni del Psg, perché c’era da sostituire Neymar un’altra volta, l’ha accettata al volo, anche se era meno della metà di quanto l’aveva pagato. Ora il valore è di nuovo raddoppiato e c’è molto di Luis Enrique nell’affermazione tardiva ma definitiva di Dembélé, che nella prima annata parigina ha fatto soprattutto il gregario di Mbappé (i due sono molto amici), ma ha rigato dritto, non è arrivato in ritardo una sola volta e ha acquisito una regolarità di rendimento di cui s’è giovato anche Deschamps, che già all’ultimo Mondiale lo aveva rimesso tra i titolari indiscutibili della Francia.
Una stagione da 33 gol
Così, si è arrivati a questa stagione sfavillante con 33 gol in 48 partite, un nuovo ruolo in campo e anche nello spogliatoio, dove adesso è uno dei leader, una guida per i più giovani. Invece che in ritardo, ora arriva persino in anticipo: dopo le semifinali di Champions, Luis Enrique ha mandato in vacanza per una settimana quelli che avevano giocato di più, lui dopo quattro giorni era invece già a Poissy ad allenarsi, perché non gli basta mica più essere definito un buon dribblatore.