Su un campo così, Cristiano Ronaldo e Messi non ci avrebbero mai giocato. Si sarebbero rifiutati. Troppi rischi di infortunio per quelle caviglie accarezzate da manti erbosi perfetti. Ma negli anni Settanta capitava che alcune trasferte costringessero squadroni di club, Nazionali e campioni annessi, a respirare il vecchio odore dell’oratorio. In questo lo stadio di Gzira, a Malta, era inarrivabile: non piccolo (trentamila spettatori), ma con una situazione ambientale particolare. Palazzi intorno, la gente appesa in ogni dove per carpire una azione di gioco (come in qualche nostro campionato minore), curiosi pali delle porte dipinti a cerchi orizzontali bianchi e neri. Ma soprattutto il campo: di terra, polverosa, insidiosa, tosta. All’Empire Stadium c’è stata nel settembre del 1972 l’Inter, per un ritorno-passeggiata del primo turno di Coppa Uefa dopo aver vinto 6-1 a San Siro. Ma vuoi mettere l’attesa che c’è il 22 dicembre del 1974. Girone di qualificazione agli Europei del 1976, arrivano i campioni del mondo, i tedeschi dell’ovest di Kaiser Franz Beckenbauer.
Per loro sorteggio facile, non facilissimo. Ne passa solo una e nel girone della Germania c’è l’insidiosissima Bulgaria (ben più forte rispetto a quella odierna). Inoltre l’esordio della Mannschaft non è stato granché: un 2-2 al Pireo contro la Grecia, agguantata a 7 minuti dal termine da Wimmer. Prima di Natale c’è da andare a Malta, e la sensazione è che non sarà una scampagnata. La nazionale tedesca, un po’ come succede ai pugili dopo gli incontri più duri, ha lasciato parte di sé allo stadio di Monaco di Baviera, dove qualche mese prima ha vinto una delle finali più belle della storia contro l’Olanda di Cruyff. Due colonne come il regista Overath e l’infallibile Gerd Muller hanno detto basta, servono forze nuove. E’ anche per questo che il ct Helmut Schoen pensa di chiamare uno che segna tanto e che in qualche modo ricorda fisicamente proprio der bomber. Anzi, a dire il vero ce lo fa pensare Beckenbauer, benestare del quale serve sempre. L’attaccante si chiama Erwin Kostedde. Non è alto, ha qualche chilo di troppo, aspetto più da cantante di provincia sul viale del tramonto che da giocatore di pallone. Ha una caratteristica che ne rende unica la sua convocazione. E’ nero, sarà il primo nero a vestire la maglia della Mannschaft.
Normalissimo al giorno d’oggi, un po’ meno 50 anni fa. E ancora meno ‘normale’ nascere nel 1946 (a Munster) con la Germania uscita sbriciolata dalla Seconda Guerra Mondiale e con la pelle frutto dell’unione di un soldato americano e di una donna tedesca. Erwin cresce con addosso gli sguardi di chi lo considera comunque un diverso se non direttamente un nemico. Anni in cui in Germania c’è poco oltre allo sport, al calcio, alla radiocronaca di Herbert Zimmermann e il suo miracolo di Berna, con l’Ungheria battuta in una finale mondiale romanzesca. E’ lì che Kostedde vede uno spiraglio per segnalare la propria esistenza. Va forte, inizia nella squadra della sua città, prosegue nella vicina Duisburg. Poi arriva il richiamo di un luogo dove di gente come lui ne trova parecchia. A Liegi ci sono solo tanti italiani che infiammano la salita di Saint Nicolas quando si corre la Liegi-Bastogne-Liegi (la gara più vecchia del ciclismo), ma soprattutto tanti africani figli delle colonie. Lo Standard inoltre in quel periodo fa faville, vince tre campionati di seguito dal 1969 al 1971, e nel terzo Erwin è anche capocannoniere. Un idolo. Vorrebbero naturalizzarlo e farlo giocare nella nazionale. Non è una proposta banale, dettata dall’urgenza di avere un bomber.
Il Belgio in quell’epoca è molto forte: è capace di eliminare l’Italia degli eroi del Messico da Euro 72 e per poco non fa fuori l’Olanda di Cruyff proprio dal mondiale del 1974: di fatto la eliminerebbe se nella gara decisiva ad Amsterdam l’arbitro sovietico Kazakov non annullasse all’ultimo minuto un gol per un fuorigioco totalmente inventato a Verheyen. Insomma, un grande squadra, ma lui dice no. Vuole la chiusura del cerchio, la rivalsa sulla diffidenza, vuole la maglia della Germania Ovest. Forse anche per questo torna a giocare nella Bundesliga. Con i Kickers Offenbach, club con una certa gloria, pochi risultati, e una rivalità feroce con l’Eintracht Francoforte (le città sono praticamente attaccate). E non mancano, in qualche sfida particolarmente accesa, i classici insulti razzisti. Non sono i primi, Erwin cerca di conviverci, pur di arrivare all’obiettivo. Con un ostacolo in più: l’alcol, che già ai tempi di Liegi inizia a causare problemi. Bottiglia o no, di gol nel segna comunque parecchi. Straordinario uno, eletto gol dell’anno in Bundesliga: ottobre 1974, 4-3 al Borussia Moenchengladbach. Stop di petto e tiro al volo di sinistro sotto l’incrocio dei pali, se lo guardi distrattamente è un gol che attribuisci a Gerd Muller.
E non è l’unico acuto; in quella stagione segna una tripletta al Bayern Monaco (un po’ vecchiotto ma ancora in grado di vincere le coppe dei campioni) in un memorabile e irripetibile 6-0. Gol che però non scacciano l’inquietudine. Una irrequietezza latente che lo spinge a cambiare spesso squadra, a cercare di fare sempre quel qualcosa in più per farsi amare dalla gente. Va all’Hertha Berlino, poi al Borussia Dortmund (che non è quello di adesso, tanto che in Germania ricordano ancora un memorabile 12-0 beccato a Moenchengladbach). Quindi torna allo Standard, ma non brilla come prima. Alcol e chilogrammi in eccesso, la carriera a 33 anni è finita. Anzi no… Pensano a lui in Francia, a Laval. E’ la tipica cittadina francese che non arriva ai cinquantamila abitanti, parecchi dei quali però dedicano tanta attenzione al pallone. E se ci porti un nome importante anche se sbiadito, l’entusiasmo decolla. Kostedde accetta e incontra il secondo allenatore più importante della carriera. Il primo è Otto Rehaggel, che in molti ricordano ct della Grecia campione d’Europa 20 anni fa, ma che per molti club tedeschi ha fatto ancora di più. Con Rehaggel è un rapporto lungo, di amore e tante litigate, iniziato a Offenbach e che riprenderà con una ampia parentesi a Brema. A Laval invece trova Michel Le Milinaire. E’ un allenatore alla Guy Roux (sulla panchina dell’Auxerre per 44 anni), di quelli che arrivano in un posto e assurgono a totem. Le Milinaire, che sarà tecnico del Laval per 24 anni, capisce che quel giocatore dalle fattezze da dopolavorista può ancora fare tanti gol. Accetta quindi un compromesso inconcepibile per il calcio moderno. A Monika, la moglie di Erwin, non piace il clima della Loira e punta i piedi. Tutto saltato? No, il Laval permette a Kostedde di starsene in Germania: allenamenti solitari per tutta la settimana, arrivo a Laval il venerdì, in campo il sabato, ripartenza la domenica. Erwin ringrazia e ripaga, vincendo il titolo di capocannoniere. Divide lo scettro con Delio Onnis, un altro con la storia pindarica: nato in provincia di Frosinone, emigrato da bambino con la famiglia in Sudamerica e diventato argentino. Segnano 21 gol a testa. Gran bottino, perché il campionato francese non è niente male: ci gioca gente come Michel Platini e Johnny Rep, tanto per citarne un paio.
Kostedde quindi torna in Germania, al Werder, dove lava l’onta della prima retrocessione in Zweite Liga con una promozione immediata. Quindi la chiusura della carriera a Osnabruck. Circa quella vigilia di Natale a Malta, la Germania se la cava vincendo 1-0 con un gol di Cullman, e pur senza brillare, se la cava anche nel girone, qualificandosi per i quarti di finale e poi per la fase conclusiva a 4 squadre di Belgrado. Kostedde vestirà altre due volte la maglia. Contro la Grecia (pareggio 1-1, entrando nell’azione del gol tedesco) e nell’amichevole, imperiale, persa in un Wembley stracolmo contro l’Inghilterra. “Ma ero solo, davvero solo”. Non è un bilancio di fine carriera, ma una frase proprio di quel periodo, quando la pressione mediatica era tale da rischiare di schiacciarlo. Beckenbauer lo sostiene sempre, il ct Schoen meno: vuole che dica che in Germania non c’è razzismo, forse pensa che cinque parole messe in fila possano eliminare il problema. Lui però quelle parole non le proferisce. L’avesse fatto, se ne sarebbe sicuramente pentito quando, con la Germania a fare festa per la riunificazione, un testimone dice di averlo visto commettere una rapina. Il tempo di capire che quel testimone si era sbagliato erano passati sei mesi, che Kostedde aveva passato in carcere. Un errore per il quale lo stato tedesco gli riconoscerà la miseria di tremila marchi.
Detenuto, solo, sostenuto solo dalla moglie Monika, dimenticato dal mondo del calcio. Tranne che da uno. E’ Willi Lippens, le loro strade si sono incrociate al Dortmund e hanno legato subito. Ci sta, perché anche Lippens, sia pure in un contesto totalmente diverso, sa cosa sia la discriminazione. E’ nato in Germania sei mesi dopo la fine della guerra, la mamma è tedesca, gioca solo in Germania, parla tedesco ma è ‘costretto’ nonostante abbia aspirazioni di Mannschaft a non giocare in nazionale. Glielo ha proibito il padre, un olandese che ha conosciuto le rudezze delle truppe del Reich. Lippens si ritrova così a giocare con la nazionale olandese: il problema è che parla la lingua così così e finisce per essere odiato, etichettato come ‘tedesco’, dai campioni dell’Arancia Meccanica. Risultato: una gara, un gol, poi niente più. Passato anche l’incubo della galera, Kostedde tenta – senza troppa convinzione – di fare l’allenatore. Ha comunque la necessità e la voglia di fare un lavoro normale. Ne fa di socialmente utili, come insegnare il calcio ai ragazzini di strada di Essen. Con pochi soldi in tasca, visto che il milione di marchi guadagnato in carriera è svanito con investimenti sbagliati. Insomma, è l’oblio. Ma come Lippens, c’è sempre qualcuno che si ricorda di lui. Sono i tifosi dei Kickers Offenbach. Oggi sostengono la squadra nella Regionalliga Sudwest (la nostra serie D) in uno stadio da più di venticinquemila posti. Non scordano però il passato. La loro rivista ufficiale ha un titolo che dice tutto: “Erwin”.