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Marchi registrati, l’eredità delle stelle: quando la fama non va sottoterra

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Resuscita i morti. I loro diritti. Perché la fama non va sottoterra. Li protegge dalla necrofilia commerciale, dagli abusi sulla loro gloria. La chiamano l’eredità delle stelle. Quella delle star dello sport, dello spettacolo, della scienza, della storia. Anzi delle delebrities che sta per dead celebrities. Insomma chi è morto e sepolto, ma continua a vivere grazie al copyright. Al diritto di immagine.

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Cosa hanno in comune Ingrid Bergman, Albert Einstein, Elvis Presley, Malcom X, Lady Diana, Marilyn Monroe, James Dean con tanti campioni dello sport da Jack Dempsey a Lou Gehrig, da Wilma Rudolph ad Arthur Ashe? Che sono rappresentati dalla stessa agenzia, la Cmg Worldwide. Fa niente se non sono più tra noi, valgono lo stesso oro.

Forbes lo scrive: «Being dead doesn’t necessarily mean being unprofitable». Traduzione sintetica: anche da morti si possono fare profitti, certe ceneri rendono, non nell’aldilà ma nell’aldiqua, un mito come Elvis frutta ancora 100 milioni di dollari l’anno.

Sapete che l’attaccante francese Kylian Mbappé (vivo, vivissimo), appena trasferitosi da Parigi (Psg) al Real Madrid, ha depositato con tanto di domanda e timbro la sua celebre esultanza, braccia incrociate sul petto, all’ufficio per la proprietà intellettuale dell’Unione Europea? Quel gesto ormai è o dovrebbe essere solo suo, blindato dal copyright. Lo sportello Ue lo ha registrato ufficialmente nel 2018 come marchio privato almeno fino al 2027. E visto che c’era, Mbappé si è allargato a mettere sotto tutela anche alcune sue frasi e dichiarazioni. Saranno belle come m’illumino d’immenso? (Giuseppe Ungaretti), celebri come e pur si muove! (Galileo Galilei) oppure ironiche come nessuno è perfetto (dal film A qualcuno piace caldo di Billy Wilder)? Giudicate voi: «Non sei contento? Tripletta», detta come provocazione a chi lo criticava. Se le usate su una maglietta dovrete versare i diritti.

Non è mica il primo, lo hanno fatto, sempre da vivi, anche i calciatori Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, lo sprinter giamaicano Usain Bolt con il suo iconico gesto Lightning Bolt, il giocatore di basket LeBron James con la frase “Just a kid from Akron”, solo un ragazzo di Akron. Anche il famoso annunciatore della boxe, Michael Buffer, ha brevettato la sua frase Let’s get ready to rumble, prepariamoci a rimbombare, che gli ha già fruttato 400 milioni. La parola ping-pong è sotto diritti (ce l’ha un’azienda americana di giochi), tennistavolo invece no. Che differenza con la stilista francese Coco Chanel che passando davanti a un mercatino dove vendevano delle imitazioni dei suoi modelli, si complimentò con il padrone del banco e gli disse: «Chi mi copia mi ammira».

Nelle prossime cinque stagioni Mbappé guadagnerà 40 milioni l’anno esclusi bonus ed entrate da sponsor. Fanno 109.000 euro al giorno, 4.500 euro all’ora e 76 al secondo. Per carità, meritati, ma c’è bisogno di minacciare querele a chi esulta come lui? La tutela dei diritti d’immagine è giusta e anche sostenere il proprio brand, ma se la vita mi gira bene e voglio fare capriole, anzi un doppio carpio come la ginnasta Simone Biles che ha dato nome al suo esercizio, devo mandare un bonifico? Appropriarsi di un’originalità è sbagliato, ma anche cercare di ottenere diritti da qualcosa che è molto comune.

Di James Dean lo sapete, la sua gioventù smise di bruciare alle 5.59 di venerdì 30 settembre 1955 sulla strada per Salinas, California. Guidava una Porsche 550 spider che aveva ribattezzato Little Bastard e che aveva comprato nove giorni prima. Andava a 130 chilometri all’ora quando all’incrocio tra la 46 e la 41 si scontrò con una Ford Tudor che pesava tre volte la sua. Un topolino contro un elefante. L’urto gli ruppe l’osso del collo, la t-shirt bianca s’inzuppò di sangue, faticarono a estrarlo dalla macchina. Era stato incornato dal volante. Aveva 24 anni, 7 mesi, 22 giorni. Il suo primo film da protagonista La Valle dell’Eden era nelle sale da appena cinque mesi, stava per uscire il secondo Gioventù Bruciata e stava lavorando al terzo, Il Gigante. Una clausola del contratto gli impediva di partecipare a gare automobilistiche. Ma era James Dean e se ne fregava. Si era anche fatto scartare al servizio militare. Gli chiesero: come hai fatto? «Ho baciato il dottore». In tv stavano trasmettendo un suo spot contro l’alta velocità dove lui si raccomandava: «Andate piano, la vita che salvate potrebbe essere la mia». Doveva dire la vostra, ma gli uscì un lapsus. Non era tipo da piano assicurativo, in tasca aveva 33 dollari e 3 centesimi e in banca molti conti da pagare.

Mark Roesler, presidente della Cmg, rappresenta circa 3.000 morti famosi. Quando nell’81 aprì la compagnia, per i cari estinti non c’erano diritti: «Chiunque poteva mettere Dean su una tazza, su una maglietta, su un calendario, la Levi’s stava facendo una campagna pubblicitaria con la sua immagine». Roesler non pensava di costruirsi una carriera nel settore, aveva scelto quella strada solo per pagarsi gli studi in legge, ma lo chiamarono dal parco di Graceland: a Memphis stavano aprendo ai turisti e c’era qualche problema con il colonnello Tom Parker, ex manager di Presley, poteva dare un consiglio? Elvis è stato il suo primo cliente, Dean il secondo. È uno bravo a valutare il potere mediatico delle star e la capacità dei campioni di attirare soldi. «Mi hanno chiesto di mettere il nome James Dean su un profilattico, abbiamo preferito di no, e così abbiamo anche rifiutato l’intitolazione di un parco-giochi in Giappone. Non è solo una questione di soldi, ma di non guastare la memoria. La figlia di Bruce Lee ha approvato che la Johnnie Walker Blue Label lo facesse resuscitare per una campagna pubblicitaria, ma i suoi fans non sono stati contenti dell’associazione arti marziali-whisky. Ho ricevuto una richiesta anche da un pronipote della famiglia di Abramo Lincoln, voleva sapere degli eventuali diritti sulle monete e sulle banconote da 5 dollari».

Roesler conosce il potere commerciale dei campioni, è stato lui a quantificare il valore di O. J. Simpson (25 milioni di dollari) nel processo civile per il risarcimento alle famiglie delle vittime. Interviene anche in caso di film e di merchandising. Tra i suoi clienti c’è il pugile James J. Braddock, morto nel ’74. Era il sesto figlio di una famiglia irlandese emigrata in America e viveva nel poco raccomandabile quartiere di Hell’s Kitchen. Era un tipo tosto, allora se ti fratturavi una mano e il dottore ti chiedeva mille dollari per l’intervento, ti rimandavano sul ring a rompertela per bene, così risparmiavano sull’operazione. Braddock aveva 24 anni: soldi, fidanzata, futuro. Combatteva, vinceva, incassava. In banca aveva messo un bel gruzzolo, ma nel ’29 la Borsa di New York crollò e ammazzò i suoi risparmi. Per lui non fu solo un “giovedì nero”, gli si annerì anche la vita: perse 16 combattimenti su 26, la sua compagnia di taxi fallì, si riruppe la mano. Annunciò il suo ritiro e s’incamminò verso il fronte del porto. Scaricatore per 4 dollari al giorno.

Braddock dormiva con moglie e figli in uno scantinato, gli avevano staccato gas e luce, niente latte. Si piegò a chiedere la tessera assistenziale: 24 dollari al mese. Tornò a combattere per fame, e si scoprì un pugile diverso, aveva imparato a sopravvivere. Se vi sembra una storia già vista, avete ragione, è il film Cinderella Man, uscito nel 2005, con Russell Crowe. L’uomo Cenerentola il 13 giugno 1935 salì sul ring per il titolo dei massimi contro il campione Max Baer, grande favorito. Sapete anche questo: vinse l’America disperata di Braddock che andò subito a restituire 367,24 dollari in contanti. Basta assistenza, era ora di rialzare la testa e di uscire dalla Grande Depressione.

La Cmg, che rappresenta anche Malcolm X, ha vinto la causa contro il regista Spike Lee che nel ’92 con il film dedicato al leader nero aveva iniziato una vendita di prodotti commerciali, ma lo sfruttamento dei diritti apparteneva alla vedova di X, Betty Shabazz, e non a Lee. Inutile chiedere all’uomo della zolletta di zucchero cosa ne pensi. Anche lui non c’è più, è morto nel ’93. Albert Sabin, ebreo, era fuggito in America dalla Polonia (allora ancora parte dell’impero russo) per evitare le persecuzioni. A metà anni ’50 inventò il vaccino orale contro la poliomielite. Gli consigliarono di brevettarlo. Rifiutò. «È per tutti i bambini del mondo». Quando Mary Poppins canta: “Basta un poco di zucchero e la pillola va giù” fa riferimento proprio al vaccino di Sabin. Al dottore che voltò le spalle al copyright e disse: non mio, ma nostro.

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