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Marino Magrin: “Dovevo essere l’erede di Platini alla Juve, oggi insegno il dribbling ai bambini”

I bianconeri lo acquistarono dall’Atalanta dopo il ritiro del campione francese. “Boniperti non mi dette la maglia numero dieci per proteggermi, ma io ero contento lo stesso perché giocavo insieme a calciatori che avevo visto solo nelle figurine. Il mio idolo era Tardelli, che emozione l’autografo di Gigi Riva”

TORINO – Marino Magrin oggi è un signore di 66 anni che scova i piccoli calciatori per l’Atalanta, va a vederli nei campetti e si appunta i nomi dei più bravi. “Che non sono mai i più grossi, ma i più fantasiosi. Anch’io ero mingherlino…”. Chi ama il calcio, il bel calcio specialmente, non può avere dimenticato la mezz’ala che passò dall’Atalanta alla Juventus dopo il ritiro di Platini. Proprio da lui, dal francese, bisogna per forza cominciare. Un destino.

Magrin, quanto le pesò essere definito “l’erede di Platini” senza poterlo essere?

“Ma il mio idolo era Tardelli: io sono sempre stato mezz’ala destra, un regista. Un giorno, ero ancora un ragazzo, lo incontrai in amichevole, mi avvicinai timidissimo e gli chiesi: “Signor Tardelli, possiamo fare una foto insieme?”. Così, pensai, se torno a fare il falegname potrò dire di averlo almeno toccato”.

Infatti, in bianconero a lei diedero l’8, non il 10.

“Fu Boniperti a deciderlo. Mi disse: ‘Ti do l’8, e non il 10 di Michel, per lasciarti più tranquillo’, ma tanto io tranquillo lo ero lo stesso. E poi, l’8 è il top: deve correre, passare, segnare, insomma saper fare tutto”.

Era una Juve a fine ciclo, quella di Marchesi: non fu una fortuna per lei arrivarci in quel periodo.

“Però è stato un sogno. Io, che venivo dalla frazione Casoni di Mussolente, Bassano del Grappa, in campo accanto a Cabrini! E l’anno dopo, allenato da Zoff e Scirea. Vivevo insieme alle mie figurine”.

Cosa ricorda di più di quei due anni bianconeri?

“Non avevo paura di nessuno, anche se sapevo che c’erano quelli più bravi di me. Ero un ottimo giocatore, non un fuoriclasse. E comunque, gol nella prima amichevole a Lucerna, gol contro l’Inter su rigore. A marzo, molti compagni volevano che la numero 10 la dessero a me. Purtroppo, un grave problema muscolare mi tenne fuori per sei mesi e addio. Ma avevo carattere, non solo tecnica”.

Le sue punizioni erano speciali.

“All’inizio non le tiravo. Un giorno, all’Atalanta, il mister Ottavio Bianchi mi disse: ‘Sempre a parlare di tattica, ma ieri ho visto un francese mettere la palla a terra e poi infilarla all’incrocio. Provaci pure tu’. Il francese potete immaginare chi fosse… Copiavo i grandi, come si inclinavano nel calciare, Zico, Maradona, Baggio. E un po’ di talento lo avevo”.

La maglia numero 10 della Juve non sempre porta fortuna, Pogba l’ha indossata poco, anche Dybala (che cominciò col 21) è andato via.

“Quella maglia non dovrebbe mai essere di passaggio: un 10 forte non può cambiare squadra dopo due o tre anni. Poi, è anche vero che le posizioni in campo sono cambiate, e il 10 classico forse non esiste più”.

Però Yildiz sembra uno di questi.

“Verissimo, è elegante, ha classe, quel numero lo porta proprio bene. Sono contento che sia rimasto alla Juve e spero ci resti a lungo”.

Pensa sia giusto ritirare la maglia numero 10 dopo che l’ha portata un fuoriclasse?

“No, perché bisogna dare la possibilità ai ragazzini di sognarla. Se la Juve avesse tolto la numero 10 dopo Platini, non l’avrebbe mai avuta Del Piero: ve lo immaginate?”.

Quali sono stati i suoi maestri?

“Ho imparato a calciare guardando in tivù Claudio Sala, che accarezzava il pallone con l’interno del piede sinistro e non tirava mai di collo pieno. Un giorno gliel’ho anche detto. I maestri in panchina, tanti: tra tutti, Giovanni Mialich, Ottavio Bianchi, Nedo Sonetti e Dino Zoff. Ma anche Bepi Bonotto, che a Bassano a un certo punto tirava fuori le sagome per le punizioni e diceva: ‘Dài, ragazzi, facciamo come Mariolino Corso’”.

E chi c’è nel cuore?

“Il primo posto è per Gaetano Scirea: un po’ ci assomigliavamo, come carattere. Il primo giorno di visite mediche alla Juve, arriva un fotografo mentre sto sulla ciclette, è il grande Salvatore Giglio che ci ha appena lasciato. ‘Per favore, non mi prenda di profilo, ha visto che naso?’ gli dico, e lui mi risponde: ‘Questa cosa, prima di te me l’aveva chiesta solo Gaetano’. Ho i brividi ancora adesso”.

Scirea è nel suo destino.

“Il giorno in cui morì, io giocavo nel Verona e avevo affrontato proprio la Juve. La sera, seppi la notizia dalla Domenica Sportiva. E sa chi c’era in studio, accanto a Sandro Ciotti? Tardelli”.

Qual è la prima emozione calcistica vera?

“Un elenco lungo, sono un uomo fortunato. Conservo un ritaglio della Gazzetta di Mantova, dove il cronista mi definisce “il Riverino virgiliano”. Il settimo cielo, per me: Gianni Rivera è stato l’altro mio idolo, prima di Tardelli”.

A un certo punto, arriva anche Gigi Riva.

“Prima volta che prendo l’aeroplano, trasferta a Roma con la rappresentativa del Triveneto. Ho vent’anni. A un certo punto, a Fiumicino compare il Cagliari, e Riva è un dirigente. Cerco qualcosa al volo per fargli firmare un autografo, in tasca ho una mia foto da militare e la porgo a Gigi, che la scarabocchia dietro. Poi, quel pezzo di carta sparisce. L’ho cercato per venticinque anni, finché vedo il bellissimo film su Riva, la vecchia foto mi torna in mente e salta fuori per miracolo”.

Lei pensava di diventare un campione?

“Mai! Quando mi prese il Mantova, pensai: ‘Ci provo un anno, poi si vedrà’. Fui titolare, e lo stesso a Bergamo in C. Sudavo la maglia, non ero solo tecnico, e il pubblico apprezzava. Quando arrivai all’Atalanta, il direttore Franco Previtali mi portò a vedere lo stadio vuoto, bellissimo, e mi disse: ‘Dobbiamo arrivare in B e poi in A, sei qui per questo’. Da quel giorno, mi sono messo a correre a doppia velocità”.

La sua era una famiglia modesta.

“Quattro fratelli, io il più piccolo, papà morì presto. Dobbiamo ringraziare nostra madre e la sua forza. Il pallone l’ho sempre amato: ho imparato a calciare tirandolo contro il muro, il muro con i suoi rimbalzi è stata la mia scuola calcio. Allenatori e dirigenti mi dicevano: “Tu sei bravo, sì, ma sei troppo magretto”, del resto mi chiamo pure Magrin… Poi ho messo carne sulle ossa ed è andata bene lo stesso”.

Il calcio è rimasto la sua vita?

“Ho avuto questa fortuna, e mi sorprendo quando ancora mi riconoscono per strada dopo trent’anni: non è che io abbia fatto poi grandi cose… Però mi volevano bene. Adesso, il pallone è pura passione: faccio scouting per l’Atalanta, vado a vedere le partite dei bambini di otto o nove anni”.

E cosa nota?

“Tanto dinamismo e tana carica emotiva, sono pieni di energia e devono essere lasciati liberi. Facciamoli giocare tutti a rotazione, lasciamoli dribblare, non pensiamo al risultato. Il dribbling va recuperato, sembra sia passato di moda, ma se non salti l’uomo non arrivi da nessuna parte. A tre anni, il corpo di un bambino sa già tutto, è istinto perfetto. Cominciamo a lavorare da lì, e forse combatteremo anche questa crisi di talenti del nostro calcio. Il pallone viene prima di tutto, non lo schema. Il pallone è il più bel giocattolo del mondo”.

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