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Matteo Materazzi: “Ho la Sla e poco tempo, la notte sogno di correre”

Intervista al procuratore di calciatori, 49 anni: “Con la mia malattia è vietato sperare, ma io voglio vivere. Penso a chi non può permettersi le spese per rendere sostenibile la sua quotidianità”. Sul fratello Marco, campione del mondo nel 2006: “Abbiamo litigato per sciocchezze, adesso proviamo a recuperare il tempo perso”

Ha sempre bisogno di una persona accanto, da solo non riesce a fare più nulla. In un attimo, la vita di Matteo Materazzi è cambiata. Dodici mesi fa la diagnosi: Sla. Gradualmente ha smesso di muovere gli arti: «Devo essere aiutato per andare in bagno, farmi una doccia, salire in macchina. Per mangiare mi devono imboccare, le mani le muovo ancora, ma non riesco a tirare su il braccio. Questa malattia è infame perché ti toglie giorno dopo giorno qualcosa». Matteo ha 49 anni, è agente sportivo ed ex calciatore. Una famiglia legata al pallone: il fratello Marco campione del mondo 2006, il padre Beppe a lungo allenatore in A. Si collega dalla Sardegna, Porto Taverna, il posto del cuore: «Veniamo qui da 40 anni, io e Marco seguivamo papà in giro per l’Italia, mia sorella Monia studiava a Roma. Era il nostro punto di ritrovo. Mi lega anche a mia madre, che era di Cagliari».

Lei l’ha persa a 13 anni.

«Un tumore al seno. Non ne ero cosciente, nessuno mi avvisò che sarebbe potuta morire. Anche per questo ho scelto di dire tutto subito ai miei figli, Geremia e Gianfilippo, così possono metabolizzare».

Quando ha capito che c’era qualcosa che non andava?

«Una partita di calciotto con gli amici, a marzo del 2024. Non correvo bene. Pensavo a un’ernia del disco, avevo preso una botta saltando una staccionata. Ho fatto gli esami, tra cui una risonanza a contrasto che aveva scongiurato sclerosi e Sla: questa malattia non si manifesta in modo chiaro».

Poi che successe?

«Due mesi dopo accompagnai mio figlio al torneo della Fondazione Vialli e Mauro. Ero in tribuna in pantaloncini, ero caduto da poco e avevo le gambe tirate su. Claudio Marchisio mi vide e si insospettì, Massimo Mauro mi chiese se poteva mettermi in contatto col professor Sabatelli del Centro NeMo, a Roma. Mi visitò il 4 settembre, appena mi vide mi disse che avevo la Sla».

Come si reagisce?

«Ti crolla tutto addosso. Poi dici: io voglio ridere, scherzare. Vivere».

Com’è la sua quotidianità?

«La notte è lunga. Non prendo mai sonno. Sono steso e si addormenta una parte del corpo che non riesco a muovere, il formicolio aumenta e diventa crampo. Devo chiedere aiuto a mia moglie Maura per fare cose banali. Di giorno esco con gli amici, porto Gianfilippo all’allenamento. Non sono mai solo, persino il mio pitbull Gilda ha capito che qualcosa non va, mi lecca le gambe, è diventata la mia ombra. Mi sposto su una sedia speciale, con un cuscino che mi fa stare eretto. Costa tanto, dalla Asl abbiamo ricevuto una piccola parte dei soldi. I malati di Sla spendono cifre enormi, i tempi della burocrazia sono lentissimi, quelli della malattia rapidi. Abbiamo pagato 100mila euro solo per rendere la mia giornata vivibile. Noi possiamo, per gli altri è un inferno. La nostra sanità è ottima, ma continuiamo a tagliare risorse. Spendiamo per le armi, puntiamo sulla morte invece che sulla vita».

Da qui nasce l’idea della raccolta fondi per sostenere la sua causa?

«La speranza è trovare una cura per la mutazione che ha colpito me come tante altre persone, 300 solo in Sardegna. Magari non mi salverò io, ma altri sì. Ci muoviamo su due binari, insieme a una famiglia calabrese e una pugliese: la Columbia University ci ha chiesto 1,5 milioni per finanziare la produzione di un ASO (un frammento genetico artificiale per inibire la malattia, ndr), un laboratorio di San Diego un milione per cercare un farmaco che potrebbe poi essere sintetizzato e portato in Italia. Ci proviamo, non so se il tempo che ho mi basterà».

Quanto avete raccolto?

«Duecentomila euro. Ringrazio Antonio Conte e la moglie Elisabetta, Simone Inzaghi e sua moglie Gaia, ma anche chi ha donato cinque euro. Mi ha scritto Ibrahimovic, mi ha mandato una emoticon e mi ha fatto forza. L’ho conosciuto quando giocava con Marco».

Ecco, suo fratello Marco. Che rapporto avete?

«Ci videochiamiamo ogni giorno, mi ripete: “Io sono qua”. Quando è scomparsa nostra madre ci siamo aiutati a vicenda, siamo cresciuti insieme, poi c’è stata qualche discussione su cose banali. Cazzate, dico oggi. Provo a recuperare con lui il tempo perso. Vuole organizzare una partita di beneficenza all’Olimpico tra gli azzurri del 2006 e l’All Star di stranieri del passato».

Anche lei era a Berlino per la finale di quel Mondiale?

«Con Maura. Al gol di Marco mi ritrovai abbracciato a un tifoso con la bandiera svizzera dipinta sulla guancia, pensai: “Che cavolo ci fa qua?”. Un momento bellissimo, di grande orgoglio per mio fratello».

Il primo ricordo con un pallone?

«Al campo Matarrese, in terra, dove si allenavano le giovanili del Bari, mio padre lavorava lì. Tornavo a casa con le ginocchia sbucciate. Il calcio è stato il filo conduttore della mia vita. A 23 anni mi sono reso conto che non sarei arrivato ad alti livelli e ho smesso di giocare. Sono diventato agente, ho fatto una buona carriera».

Nel mezzo ha fatto la tv.

«Grazie a Simona Ventura, mi ha scritto anche in questi giorni. Portai a Quelli che il Calcio il video di un ragazzo brasiliano, lei mi chiese di andare a visionarlo in Brasile. Dovevo partire con Ana Laura Ribas, ma non salì sull’aereo perché azzannarono il suo cane al parco. Ho partecipato a 90° minuto, alla Domenica Sportiva e al Calciomercato di Sky, poi ho fatto L’Isola dei Famosi: restai solo undici giorni, Gianfilippo non stava bene».

Conosce sua moglie da quasi trent’anni. Cosa rappresenta per lei?

«È il mio faro, mi dà la forza per andare avanti, altrimenti avrei già mollato. Prima della diagnosi ci eravamo allontanati, ero andato via di casa. Con la malattia ci siamo riavvicinati. Sarei perso senza di lei».

Il messaggio che le ha fatto più piacere?

«Forse quello di Pancaro. Avevamo avuto dei problemi, ha saputo andare oltre, lui come tanti altri».

Qual è la cosa che più la spaventa oggi?

«Non veder crescere i miei figli».

Dentro di lei c’è ancora speranza?

«Con la malattia che ho mi è vietato averla. Provo a vivere al massimo, finché posso. E di notte sogno di correre».

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