«Lamine, io sono tuo padre». Una guerra stellare, su un campo di battaglia da decidere (la storia senza prezzo di Wembley e Montevideo contro il deserto dorato del Qatar e dell’Arabia Saudita). A marzo dell’anno prossimo. Poi, mai più. I duelli nel Far West mica si ripetevano: ne rimaneva uno solo. Messi contro Yamal. Che sia Argentina contro Spagna è un pretesto. La Finalissima tra campioni continentali, a chi importa?
Yamal andrà per i 19 anni e si sarà preso quasi tutto: la maglia numero 10 del Barcellona, l’adorazione del Camp Nou, il pronostico per i Mondiali e forse il Pallone d’oro. Messi per i 39 e avrà casseforti piene di ricordi e il distratto amore dell’America, una compagnia di bucanieri guerci e, a casa, una maglietta che nel candeggio ha sbagliato colore. Vent’anni nello sport non sono un’era, non sono niente. Nessuno incontra il proprio erede, LeBron James avrà giocato insieme con suo figlio, ma il sangue non è talento. È un mondo libero, non ci sono legittime, la successione dipende dal merito. Vent’anni erano una garanzia, potevi andartene finché c’eri solo tu nell’universo.
Quando Maradona si ritirò, Messi doveva ancora arrivare a Barcellona. Adesso le carriere sportive durano troppo, sfondano Wikipedia. Se Leo avesse salutato da blaugrana, o dopo la triste Parigi, perfino dopo il trionfo in Qatar, Lamine sarebbe rimasto per lui quello a cui aveva fatto un bagnetto. Esci prima e i confronti restano ipotesi per intelligenze da bar o artificiali. Rimani e vedi avanzare la tua nemesi che non è mai il tuo opposto, ma il tuo doppio, quello che si prende lo stesso spazio, la stessa luce e ti regala la stessa ombra. Non è Yamal ad aver fatto troppo presto (hanno debuttato alla stessa età) è Messi ad aver fatto tardi. È ancora qui, smaterializzato dall’America che ne fa un’opera d’arte digitale venduta a quasi due milioni di dollari; convocato per baracconate all star a cui non partecipa perché non tutte sono stelle, e nessuna come lui; acceso a intermittenza, dipende dai palcoscenici, due saette a New York, buio a Cincinnati, la città che non sorge mai.
E Yamal si avvicina, a passo di danza nelle feste sbagliate, ma senza mai sbagliare un passaggio. Si sposta, ogni mese un centimetro verso il centro del campo a occupare più spazio, a riempire la memoria che, negli uomini come nelle macchine, ha limiti di capienza. È monoteista, ammette un dio unico. Sembrerà un’eresia ottica vederne due avvicinarsi al cerchio di centrocampo e darsi la mano prima che ne resti uno solo: «Leo, io sono tuo figlio».