BOLOGNA — Gianni Morandi, cosa ha rischiato di perdersi mercoledì sera…
«Non volevo andare all’Olimpico, è vero. Ma poi hanno insistito…».
Ma perché, lei che è sempre al Dall’Ara, stavolta pensava di restare a casa?
«Avevo paura del risultato, confesso. Mi spaventava l’idea di un viaggio di ritorno triste e malinconico come per i milanisti ieri notte. Ne ho incontrati tanti tornando a casa dopo la partita, mi sono fermato a quasi tutti gli autogrill proprio per assaporare la felicità dei nostri tifosi. E i rossoneri li consolavo, proprio come ho fatto anche in campo con Leao».
Cosa gli ha detto?
«Beh intanto che non me lo facevo così grosso. Da vicino fa impressione. Gli ho fatto i complimenti, gli ho detto che non possono vincere sempre, ho cercato di tirarli su. Leao è stato carino, mi ha detto che siamo stati bravi».
E come mai ha cambiato idea sulla trasferta all’ultimo?
«Tempo fa la Lega mi aveva invitato a cantare l’inno di Mameli prima della partita, ma non aveva senso a meno che non avessero trovato anche un milanista. Sennò mi sarei preso i fischi di mezzo stadio e poi alla fine magari anche della mia metà se avessimo perso. Però mi hanno invitato lo stesso, poi hanno chiamato per insistere e allora ho chiesto a Guido, il mio amico vicino di casa, ‘andiamo?’. Una spinta di qua e una di là mi sono deciso, per fortuna. L’anno prossimo mi hanno invitato a cantare se non ci sarà il Bologna in finale, ma preferisco ci sia».
L’abbiamo vista piangere.
«È stata una grandissima emozione. Gli abbracci con Saputo, Fenucci, De Silvestri e Italiano, erano tutti commossi. È stato bravissimo Vincenzo, quelle tre finali perse prima gli pesavano parecchio. Pensa se avesse perso la quarta… A De Silvestri ho detto che però avrebbe potuto fare almeno un paio di minuti, mi ha risposto che non gliene fregava nulla, era troppo felice così».
E Saputo?
«Era commosso. Ha dato grande lustro alla città. Ha fatto bene all’immagine. Stiamo vivendo un’età dell’oro turistica. Adesso oltre che per le torri e i tortellini verranno anche per la Coppa Italia».
Non ha provato un pizzichino di invidia, visto che anche lei è stato presidente onorario del Bologna?
«Macché, io sono sempre stato solo un tifoso. Dell’esperienza di 11 anni fa ricordo che eravamo una società un po’ improvvista, eravamo impreparati. Non fu un bel momento. Ma almeno evitammo il fallimento a metà stagione, fornendo garanzie bancarie. Chissà, magari ora il Bologna non sarebbe dov’è se non l’avessimo salvato. Per fortuna lo cedemmo al grandissimo Saputo. L’avevo conosciuto che era un bambino, quand’ero ospite dei suoi genitori nel 1975 dopo un concerto in Canada. È stato bravissimo a scegliersi i collaboratori, Joey. Sartori ha costruito una bellissima squadra e per sostituire Motta ha scelto Italiano, preziosissimo».
Trentamila bolognesi sulle gradinate, cose mai viste.
«Un’apoteosi, mamma mia. Specie alla fine, con la voce di Lucio e tutti a cantare con lui L’anno che verrà. Brividi. Molto commovente».
E meritato.
«Sì, bello proprio perché meritato. Lo dicono tutti, anche i milanisti. C’era fin dall’inizio un’atmosfera da sera dei miracoli. Noi abbiamo giocato bene e abbiamo fatto giocare male loro. Dopo un primo tempo equilibrato, dal gol di Ndoye in poi loro non si sono ripresi dalla botta, sono calati, si sono depressi, non lo so. Sono forti, ma si son detti ‘non ce la facciamo’».
Ora come allora, come nel 1964, diceva la curva.
«L’ho rivista da poco quello spareggio scudetto con l’Inter. Era un altro calcio, tutto più lento, però eravamo bravi. Avevamo grandi giocatori. Io quella volta non venni a Roma perché la sera avevo un concerto a Governolo in provincia di Mantova. La sentii alla radio prima di partire, c’era un silenzio per strada che mi dicono uguale a quello di ieri sera. Si sentiva solo il gracidare della radioline. E poi al gol di Fogli un boato che volavano via le case. Invece la vittoria della Coppa Italia sul Palermo nel 1974 non la rammento, secondo me perché fu un po’ rubata. Poi allora contava meno. Questa sarà indimenticabile».