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Morten Thorsby, l’intervista: “Non siamo più quelli del ’98, ma battere l’Italia sarebbe un’impresa”

Il centrocampista del Genoa e della Norvegia alla vigilia della gara di Oslo contro gli azzurri: “Le due mancate qualificazioni per il Mondiale sono figlie del livellamento globale: le differenze si sono assottigliate. Noi come la Svezia nel 2017? Vogliamo giocarcela fino all’ultima giornata”

OSLO – Morten Thorsby, la Norvegia 2025 può davvero essere per la Nazionale italiana una trappola come la Svezia nel 2017?

“Quelle due partite ce le ricordiamo anche qui, il mio amico Ekdal me le ha raccontate spesso. Per una squadra scandinava battere l’Italia è un’impresa, si parte sempre sfavoriti. Se capitasse anche a noi, sarebbe una cosa grande. Ma ci sentiamo competitivi: siamo saliti nella Lega A della Nations, dove ci confronteremo con le più forti, e abbiamo cominciato bene il girone di qualificazione al Mondiale. Ora il nostro obiettivo è di tenere la classifica incerta fino all’ultima partita, il 16 novembre in Italia, e di giocarci tutto lì”.

Perciò la semifinale di Europa League giocata dal Bodø Glimt non è stata il classico evento raro?

“No, semmai è stata una bellissima pubblicità per noi. Il Bodø, eliminando la Lazio dopo avere battuto due volte la Roma in Conference nel 2022, ha dimostrato che il calcio nordico è sicuramente in crescita: abbiamo trovato il nostro stile di gioco”.

La Norvegia di Solbakken sembra soprattutto fondata sul trio Ødegaard-Haaland-Sørloth.

“I giocatori di alto livello, al top in Europa, non mancano: basta pensare a talenti come Nusa del Lipsia e Bobb del City. Ma la svolta, più in generale, è stata il cambio di mentalità. Negli anni Novanta, quando al Mondiale ’98 avevamo battuto perfino il Brasile, eravamo stati tra i primi a usare con successo la difesa a zona. Lo schema offensivo era il lancio lungo del terzino all’attaccante e con Tore André Flo, centravanti del Chelsea, funzionava molto bene. Poi il calcio è cambiato, si è sviluppato e noi abbiamo perso un po’ la direzione. Ma negli ultimi 10 anni è cresciuta una nuova generazione di giocatori molto forti tecnicamente, che prima non avevamo”.

Gli sport nazionali restano quelli nordici e l’eroe è sempre Bjørn Daehlie, il re dello sci di fondo.

“Vero, però il calcio è lo sport col maggiore numero di praticanti. La nostra cultura sportiva è ovviamente molto diversa da quella europea tradizionale, ma i campi in sintetico riscaldati hanno cambiato le cose: è stata la svolta. Io stesso da ragazzino facevo calcio in estate e sci in inverno, perché c’era mezzo metro di neve sui campi. Poi è arrivato il sintetico e da una decina d’anni un ragazzo che gioca a calcio può farlo per 5-6 mesi in più. Così alle caratteristiche naturali dei nostri calciatori, fisicamente ben strutturati, oggi si uniscono buone doti tecniche e tattiche. E progetti importanti, come quello per il centro tecnico federale vicino a Oslo. Ho visto le immagini, è davvero una struttura eccellente. Sarà la nostra Coverciano”.

Intanto nella Coverciano originale Spalletti si sta preparando a una partita complicata, tra le difficoltà accentuate dal periodo finale di una stagione lunghissima.

“Forse questa è una fase un po’ difficile per la Nazionale italiana, però stiamo sempre parlando di una squadra piena di storia e di un movimento calcistico che ha nel proprio Dna il livello massimo. Io credo che la lettura sul momento del vostro calcio debba essere più equilibrata e meno emotiva. Nell’Inter della finale di Champions c’erano 4 titolari italiani. Le due mancate qualificazioni consecutive per il Mondiale sono figlie della globalizzazione e del livellamento: ovunque ormai ci sono allenatori sempre più preparati, le differenze si sono assottigliate. Ogni grande nazionale paga i tempi ristretti per preparare le partite, ogni ct ha sempre meno tempo per lavorare”.

La Norvegia potrebbe essere aiutata dalla minore pressione?

“Sicuramente abbiamo una cultura molto diversa da quella italiana, vogliamo essere molto uguali come popolo. Lo sport fa parte di noi, è anche un modo di essere, e nessuno si sente star, a prescindere dalla sua fama. In norvegese esiste un’espressione idiomatica: Janteloven. Tradotto, il concetto è che non devi mai pensare di essere migliore degli altri. È una questione morale, connaturata al nostro popolo. Anche se sei un calciatore famoso, sei come gli altri e il rapporto coi tifosi è più paritario, egualitario. Dobbiamo restare noi stessi”.

Come è possibile riuscirci, nell’era dei social?

“I social non hanno cambiato solo il calcio, ma la società tutta. Non sappiamo ancora dove ci porteranno. Sarà interessante vederlo nei più giovani, che li hanno avuti fin da bambini. Io mi ritengo fortunato, perché i social sono arrivati quando avevo già 14-15 anni e ho fatto tutta la mia crescita senza il telefono, ero connesso con lo sport e con la natura. Mi fa male sapere che non sarà così per i miei figli: sappiamo che per i giovani i social sono anche pericolosi, possono fare veramente male”.

Sport e natura: un binomio molto norvegese?

“Sì e no. Da noi c’è forse un po’ più di sensibilità sull’argomento, ma anche noi, nel calcio in particolare, dobbiamo fare ancora tanta strada per creare più sensibilizzazione su queste tematiche. L’obiettivo è arrivare a un calcio sostenibile”.

Il calcio attuale è insostenibile?

“Il calcio sostenibile è quello che può continuare per tanto tempo, mentre il calcio di oggi è un sistema a breve termine, che genera nell’immediato la maggiore quantità possibile di soldi, ma che a lungo andare non può reggere, perché è un sistema dominato dai soldi facili: stanno vincendo sulla natura e sull’ambiente, non possiamo continuare così”.

I punti più critici?

“Ci sono sempre più partite, più squadre, più viaggi: è una strada che porta al collasso del sistema. Io sono advisor, consulente, del programma Uefa sustainability, e sono impegnato anche con la Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori professionisti. Fifa, Uefa e Leghe nazionali: tutti sanno che il calendario è intasato, siamo già al limite. Eppure vogliono ancora più partite, vogliono allargare tutti i tornei, Mondiale, Europeo, Champions. E se da un lato per i calciatori c’è un limite fisico, dall’altro ogni partita in più ha un impatto sull’ambiente. L’obiettivo sancito dall’accordo di Parigi 2015 era di limitare le emissioni di gas a effetto serra del 40% entro il 2030, e invece stanno sempre crescendo, non è possibile”.

La maglia numero 2, che lei indossa nel Genoa e nella Norvegia, è il richiamo a contenere il riscaldamento globale entro la soglia dei 2° C.

“Faccio quello che posso: lanciare un messaggio, un calciatore ha più visibilità. Quello del calcio è un mondo complicato, ma vedo che la consapevolezza e la sensibilità su questi argomenti stanno crescendo in generale. Ci sono più giocatrici e giocatori europei che vogliono fare la loro parte”.

Qualche esempio?

“Junge Pedersen, centrocampista dell’Inter, e come lei tante altre donne del calcio. Alcuni giocatori della Bundesliga. Hector Bellerin, del Betis Siviglia, col quale ho condiviso un progetto sull’ambiente”.

Mancano i nomi famosi.

“Forse i colleghi meno noti si sentono più liberi di dire ciò che pensano, ad esempio nel calcio femminile c’è più libertà di fare la differenza. La verità è che ho parlato di questi temi con tanti colleghi e che molti sono d’accordo con me, ma non vogliono esporsi pubblicamente. Ogni piccola iniziativa è importante, lo è stata quella del Genoa nella giornata della terra ad aprile: mezzi pubblici gratuiti per andare allo stadio, raccolta differenziata”.

Papa Francesco si esponeva volentieri.

“La sua era una presa di posizione molto chiara e aveva tanto peso. I messaggi fatti passare da persone come lui, in ruoli importanti come il suo, hanno grande valore”.

Lei è soprannominato Greta Thunberg del calcio: quella per la natura è stata una passione fin da bambino?

“Sì. Camminare nella natura, correre nel bosco, fare lunghe camminate, andare in bicicletta mi è sempre venuto spontaneo. Lo faccio appena ho un momento o un weekend libero, come giorni fa col mio amico camminatore Pietro, quando siamo andati a piedi al santuario della Madonna di Caravaggio, sopra Rapallo. Oppure una mattina, quando per errore mi sono presentato troppo presto all’allenamento, a Pegli, e ne ho approfittato per un’escursione bellissima al Monte Beigua. Nella Liguria ho trovato il luogo ideale per portarmi dietro le mie abitudini”.

È così simile alla Norvegia?

“Dove abito io, a San Rocco di Camogli, c’è lo stesso mix tra monti e mare. Ormai la Liguria, dove complessivamente ho già vissuto 5 anni sommando i tempi della Sampdoria, è la mia seconda terra. Tiene insieme tutto in pochi chilometri e questa qualità della vita è un aspetto aggiuntivo che mi dà tanta energia. Ho la mia piccola comunità di persone che mi fanno stare bene, è fondamentale per me. Ora qui sto lavorando a un altro progetto sul cibo naturale, associato allo sport”.

L’orto di Prà, il quartiere del basilico doc?

“Esatto. Sulle alture del Ponente genovese, abbiamo messo a posto una vecchia fascia di terreno, per creare un orto dove coltiviamo prodotti che sono l’antitesi del cibo industriale. Il principio da cui partiamo, nel progetto con Luca Gargano basato sulla tripla A (agricoltori, artigiani, artisti), è che l’uomo è ciò che mangia. Abbiamo trovato l’opportunità di sensibilizzare il calcio sul legame tra sport e alimentazione. Negli ultimi 20-30 anni il cibo industriale, che ha un costo inferiore, ha monopolizzato il mercato. La Liguria è una regione molto complicata per le coltivazioni, lo spazio è poco e bisogna ingegnarsi. L’orto a chilometro zero è perfetto per gli atleti: il cibo naturale, coltivato in un ambiente con le biodiversità, non solo fa più bene a chi lo mangia, ma è anche più gustoso”.

Il calciatore agricoltore contrasta col cliché del divo da gossip: è vero che ha trascorso le ultime vacanze estive in una piantagione di cacao?

“A Sao Tomé e Principe, nell’arcipelago di fronte all’Africa, in mezzo all’Atlantico, ho passato dieci giorni straordinari. Ci ha ospitato un italiano, Claudio Corallo, che produce un cioccolato completamente naturale. È stato un viaggio molto semplice. Non c’erano alberghi, non c’era internet, in mezzo ai contadini del posto, dormendo per terra in una vecchia casa coloniale portoghese dell’Ottocento senza finestre, ai bordi della foresta equatoriale. Un’esperienza incredibile e molto emozionante”.

Da ambientalista, che cosa pensa dell’Italia, terra dei mille borghi d’incanto ma anche dell’industrializzazione selvaggia?

“Che a volte butta un po’ via le sue straordinarie risorse. È un Paese fantastico, in cui il paesaggio si fonde con l’arte, che è parte integrante di questa bellezza unica. Ma si può migliorare attraverso la consapevolezza. Negli ultimi 50 anni, e il discorso non riguarda solo l’Italia, molte persone hanno vissuto esclusivamente in città e così hanno perso la connessione con la natura e la percezione della sua importanza per noi uomini. Un ambientalista, quando parla di salvare la natura, in realtà vuole salvare l’uomo”.

Il mondo dello sport non fa abbastanza?

“Il suo ruolo è cruciale, come quello della scuola. Insegnare il rispetto per la natura è essenziale soprattutto oggi: ci sono bambini che hanno vissuto solo in città. Se perdono questo contatto, per loro sarà difficile ritrovarlo. A volte penso a quanto sono stato fortunato”.

Perché a 17 anni scelse di fare il calciatore professionista invece di Harvard?

“No, quella è stata una scelta non forzata, anche perché in Norvegia lo studio è comunque una cosa importante e mai incompatibile con lo sport. Nel nostro modo di essere, lo Janteloven di cui parlavo, se un ragazzo fa solo il calciatore gli amici gli chiedono: ma perché non vai a scuola? Mi fa piacere che l’Aic, l’associazione italiana calciatori, stia spingendo tanto i calciatori a studiare e che nella vostra Nazionale ci siano esempi di universitari o laureati. Ma io, quando parlo della mia fortuna, mi riferisco al fatto di essere cresciuto in una cultura fondata sullo sport. Da ragazzo ero molto bravo nello sci di fondo”.

Codice genetico?

“Un po’ sì. Mio papà Espen è stato nelle nazionali giovanili, gareggiava con Daehlie, poi ha dovuto smettere per un problema fisico. Mia mamma Pia faceva sci alpino. Io ho iniziato presto a giocare a calcio nell’Heming, la squadra del mio quartiere di Oslo, ma ho fatto anche sci fino a 14 anni, un po’ come Sinner. E prima ho avuto la possibilità di sperimentare tutto: anche orientamento, che da noi è parecchio diffuso, e triathlon. Dai 14 anni in su c’è stata la svolta verso il calcio e a 17 mi sono trasferito in Olanda, all’Heerenveen. Lì ho consolidato la mia passione ambientalista”.

A proposito, che ambiente troverà l’Italia all’Ullevaal?

“Non penso che si spaventerà per i nostri 25 mila spettatori, è abituata a stadi più grandi. Però un ambiente caldo lo troverà di sicuro. Noi siamo una squadra molto motivata. Voi avete perso 2 Mondiali di seguito, ma noi siamo addirittura a 6. Anche la Norvegia ha abbastanza fame”.

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