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Nkunku papà goleador: quando l’esultanza è un gioco da bambini

L’attaccante rossonero come Totti, Bebeto e Tevez: così si riafferma la propria genitorialità e si scacciano i sensi di colpa

Forse c’entra l’assenza, chi lo sa. Fra un ritiro e una trasferta, tra un mese ai Mondiali o agli Europei — d’estate c’è sempre un torneo da giocare — l’uomo si immalinconisce, e prima o poi il bambino lo scrive nel tema alla maestra: mio padre a casa non c’è mai. Per fortuna gli attaccanti fanno gol e dentro quei piccoli trattati di semiotica che sono le esultanze, possono infilarci un pensiero per la creatura e la traccia di un senso di colpa, il tratto più diffuso della genitorialità contemporanea. Dentro i palloncini soffiati da Christopher Nkunku, blu al Chelsea e rossi al Milan, ci stanno anima, vezzo e sentimento, ma forse pure il tempo che il calcio gli sottrae. Servirebbe un panel di sociologi per capire.

L’esultanza rivoluzionaria di Juary

Non c’è gesto più bambino per un adulto che esultare dopo un gol su un prato. Quando il calcio era primitivo, primitive erano le braccia al cielo e la corsa libera senza copione. È stato Juary a fare la rivoluzione, con la sua danza intorno alla bandierina quando la serie A riaprì le frontiere, dandosi alla mescolanza e alle contaminazioni. Era un’eccezione folk, sarebbe diventata parte dello show. E da uno show come fai a tener fuori i bambini? I più bravi di tutti, a Hollywood, li hanno subito usati come strumento di ricatto per lo spettatore. Il minuscolo Dink in The Champ, Tatum O’Neal in Paper Moon, il piccolo Billy di Kramer contro Kramer. Da noi è stato crudele Comencini con il suo Incompreso, ma per tutti vale lo stesso trucco: porta un marmocchio sulla scena e nessuno ti resiste.

La culla di Bebeto e Totti col “pancione”

Sono passati oltre trent’anni da quando Bebeto fece gol al Camerun ai Mondiali e si piazzò davanti alla telecamera per dondolare le braccia come una culla. Voleva dirci che stava pensando al suo bambino nel posto più bambino dove un trentenne possa lavorare. Da allora tutti ci inseguono per mostrarci che padri sono, che padri sarebbero, che padri vorrebbero diventare. Totti fece di più, si fece madre. Infilò il pallone sotto la maglia, si sdraiò e mimò una scena da sala parto. Nessuno ha più ripetuto la performance, ma pance finte quante ne abbiamo viste passare. Anche il suo pollice tra le labbra, che in realtà replicava un vezzo della sua Ilary, è passato di bocca in bocca, finché Carlos Tévez fece il colpaccio. Dopo un gol al Milan si fece trovare con un ciucciotto tra i denti. La vera prodezza era stata tenerlo nascosto nell’elastico dei pantaloncini per 70 minuti.

I bambini e il pallone

Quando alla teologa tedesca Dorothee Solle chiesero come avrebbe spiegato a un bambino che cos’è la felicità, rispose che gli avrebbe dato un pallone. Perché stupirsi se gli ex bambini segnano un gol e pensano al figlio a casa. Consigli non richiesti per restare originali: fingere di cambiare un pannolino, simulare una casa di Lego, smanettare su un immaginario joystick. Dalla culla di Bebeto al palloncino di Nkunku può dirsi compiuto l’arco intero della genitorialità. Sembra ignorato solo il passaggio dello svezzamento. Non risultano esultanze analoghe nelle partite femminili. Uno studioso della società spiegherebbe perché un figlio invade l’universo semiotico del maschio nel momento in cui quello riorganizza il pensiero di sé al culmine di una gioia, mentre le donne esultano rivendicando altro, l’emancipazione da uno schema. Se non fosse uno show, potrebbe dirsi uno sconvolgimento dei costumi. O più semplicemente la genitorialità su un campo rimane privilegio dell’uomo. Se una donna infila il pallone sotto la maglia, lo fa per protestare, come successe nel volley quando Lara Lugli in gravidanza venne citata per danni dal suo club. A questo punto servirebbe una legge, altro che un panel.

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