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“Noi siamo chirurghi di precisione”, i segreti dei preparatori atletici custodi dei muscoli dei giocatori

Col numero da record di partite che si giocano in una stagione, la figura è diventata fondamentale. Alcuni dei big ci raccontano perché

Il calciatore crolla a terra, le mani sul volto. I compagni di squadra, intorno a lui, si mettono le mani nei capelli. Gli spettatori, in tribuna e davanti alla tv, si chiedono: “Si poteva fare qualcosa per evitarlo?”. I troppi brutti infortuni di questo inizio di stagione attirano inevitabili domande sulla preparazione atletica dei giocatori, costretti a ritmi sempre più sostenuti, e sui reali margini di manovra di chi ne cura la forma fisica all’interno dei club di appartenenza. Esiste un metodo per portare una squadra al top della condizione, evitando il più possibile lunghi e dolorosi stop agli atleti, anche con il moltiplicarsi delle partite giocate? È la grande sfida del pallone dei giorni nostri, che combatte contro calendari asfissianti e numeri che lasciano senza parole. Un esempio su tutti, il più clamoroso: nella scorsa stagione Julian Alvarez, attaccante argentino del Manchester City, è sceso in campo in 75 match, uno ogni tre giorni e mezzo, mentre un top club nei primi anni Duemila giocava 45, al massimo 50 partite in un’annata calcistica.

Albarella: “Fondamentale gestire le finestre di stress”

Eugenio Albarella è stato per quasi trent’anni il preparatore atletico delle squadre di Alberto Zaccheroni, che ha seguito anche dall’altra parte del mondo, in Giappone, in Cina, negli Emirati Arabi. Ora ha legato il suo destino professionale a Fabio Cannavaro, con cui ha lavorato anche nell’esperienza della scorsa stagione all’Udinese. Per aiutare nelle loro performance questi sportivi che, per quanto molto ben pagati, devono convivere con i limiti dei comuni mortali “lavoriamo sul recupero fisiologico, che è comunque diverso per ogni persona. Per questo gli allenamenti di gruppo vanno alternati con quelli specifici del singolo. Le risposte biologiche variano e quindi, magari, può essere utile dare a un calciatore un giorno di riposo a 48 o addirittura a 24 ore dalla partita, senza per questo escluderlo dalle convocazioni. Uno stile di vita corretto fa diminuire per tutti il rischio infortuni, ma c’è anche la reazione individuale agli stimoli: io definisco un atleta di livello chi è capace di gestire le finestre dello stress da competizione. Più si riesce ad aprire e chiudere velocemente queste finestre e più si abbasseranno gli indici di stress. Quindi al talento fisico si somma quello nervoso, la capacità di proiettarsi subito alla gara successiva senza consumare energie pensando al risultato precedente oppure anticipando lo stato emotivo che la competizione stessa ti porta”.

“Il preparatore atletico come un chirurgo di precisione”

“Il preparatore atletico nel calcio – dice Albarella – non può essere più il professore di educazione fisica prestato allo sport, ma uno specialista con anni di formazione. Uso un parallelo secondo me efficace: prima eravamo medici generici, ora siamo diventati chirurghi di precisione”. Che però, per rimanere nella metafora, nella sala operatoria non sono soli. Accanto a loro c’è l’allenatore, una figura necessaria ma a volte ingombrante: “Se alla domenica c’è una partita che conta, tanti preferiscono mettere comunque in campo un calciatore importante, anche se ha già giocato il mercoledì e dovrebbe recuperare. Un’esigenza dettata dal risultato che però aumenta il rischio infortuni”, spiega Roberto De Bellis, ex preparatore atletico (tra le altre) di Juventus, Atalanta, Genoa, Sampdoria e Cagliari, che ora lavora per il Kallithea, club greco allenato da Massimo Donati. “Dovrebbe sempre esserci una somma di professionalità, invece spesso in Italia i tecnici portano nelle prime squadre i preparatori che hanno incontrato quando allenavano le giovanili, con cui hanno stabilito un rapporto di fiducia, mettendo giocatori che valgono milioni nelle mani di colleghi che non hanno la formazione necessaria”.

Gli allenamenti massacranti di Antonio Conte

Come sempre accade, il rapporto tra allenatore e preparatore atletico è influenzato da personalità e carisma. Chi lavora con Antonio Conte, per esempio, sa della sua adesione ai principi del “marine” Gian Piero Ventrone, scomparso improvvisamente a ottobre del 2022. L’attuale tecnico del Napoli lo incontrò da giocatore nella Juventus di Lippi e poi lo volle con sé nella sua carriera in panchina fino all’esperienza al Tottenham. Difficile dimenticare le immagini del luglio di due anni fa, quando la squadra londinese preparava la stagione a Seul: dopo l’ennesimo esercizio massacrante, Harry Kane, piegato in due, vomitava appoggiato a un cartellone pubblicitario, mentre Son Heung-min si contorceva a terra, stremato. “Un incubo, che però ti spinge a dare sempre di più”, lo hanno definito domenica 6 ottobre, negli studi di Sky, due ex calciatori come Riccardo Montolivo e Leonardo Bonucci, che ha rivelato: “Quando ho conosciuto Conte alla Juve ero appena tornato dal viaggio di nozze e non ero in condizioni ottimali: nella prima seduta mi sono fermato per I crampi, non mi era mai successo”. Al “metodo Ventrone”, che punta ad allenare la resistenza e la potenza metabolica, con l’uso frequente di scatti ripetuti su distanze variabili, si affianca il lavoro di chi preferisce le esercitazioni con l’uso dell’attrezzo, il pallone, per rimanere più vicino al modello prestativo che richiede il calcio.

Allenatore e preparatore devono lavorare in simbiosi

Vincenzo Pincolini è l’uomo che ha creato in Italia la figura del preparatore, portando le sue competenze legate all’atletica leggera al servizio di Arrigo Sacchi, prima al Parma e poi al Milan, per poi renderle patrimonio comune in una carriera in cui ha lavorato con Inter, Roma, Atletico Madrid, Dinamo Kiev, Lokomotiv Mosca e con le nazionali italiana ed ucraina. Gianni Brera su Repubblica lo chiamava il “Ginnasiarca”, perché aveva introdotto nel mondo del nostro pallone pratiche prima sconosciute: gli allenamenti specifici, gli esercizi differenziati, le analisi delle prestazioni, che negli anni sono divenute sempre più sofisticate e precise: “Il futuro del calcio – dice Albarella – passa attraverso quelli che io definisco i dipartimenti della performance: un’organizzazione strutturale delle società in cui tutte le componenti integrano con le loro conoscenze la banca dati dell’atleta stesso, confrontandosi con lo staff tecnico in modo da accorciare i tempi di conoscenza. Oggi è impossibile sentire la vecchia frase dell’allenatore che dice al preparatore: ‘Tu oggi cosa fai?’. Non esistono più i compartimenti stagni, bisogna lavorare in simbiosi”.

Le carenze nelle strutture delle squadre italiane

Ma c’è ancora tanta strada da percorrere: “Ci riempiamo la bocca con la parola ‘prevenzione’ – dice De Bellis – ma ancor oggi molti club non investono nelle strutture e nelle professionalità necessarie per garantirla agli atleti. Vedo in giro centri sportivi rimasti agli anni ’90 da un punto di vista tecnologico, dove non si eseguono analisi qualitative. Vero, alcuni infortuni sono dovuti ai contatti di gioco o alla sfortuna di un piede appoggiato male a terra, ma tanti altri potrebbero essere evitati con una distribuzione ottimale dei carichi di lavoro e con lo studio delle problematiche individuali del calciatore, che troppo spesso non vengono evidenziate”.

La provocazione di Platini: “Giochiamo in 10 contro 10”

La sfida è sempre più difficile, perché i calciatori sono sempre più al limite. Nella stagione 2023/2024 il difensore argentino del Tottenham Cristian Romero, ex giocatore di Genoa e Atalanta, ha percorso in aereo 162.000 chilometri, per un totale di 221 ore di viaggio attraverso i fusi orari. Jude Bellingham a 21 anni ha già giocato 251 match ufficiali. Alla sua età David Beckham era femo a quota 54. E non sono lo stesso tipo di partite: “Gli allenatori di oggi – spiega Albarella – vogliono ridurre tempi e spazi ai calciatori dell’altra squadra e chiedono ai loro giocatori un’intensità che li porta al rischio del contatto fisico con gli avversari ogni due azioni, mentre solo qualche anno si entrava a contatto ogni cinque azioni. E in questo contesto che io definisco da crash test la possibilità di infortuni è molto più alta”. Così come è forte, dalla tribuna, l’impressione di un gigantesco imbottigliamento sul prato verde, che certamente non aiuta lo spettacolo. Per questo l’ex presidente dell’Uefa Michel Platini a settembre ha lanciato una provocazione: bisogna giocare in dieci per squadra e non più in undici per liberare gli spazi e garantire maggiore spettacolo. Nelle ammucchiate in campo, che Gianni Mura definiva “tonnare”, ci rimettono gli atleti, che rischiano tendini e legamenti e anche, in maniera diversa, i preparatori, che hanno sempre più conoscenze ma sempre minor tempo a disposizione per incidere.

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