ROMA — Massimo Oddo, campione del mondo nel 2006, lei ha segnato 24 dei 27 rigori tirati in carriera. È favorevole alla modifica del regolamento proposta da Pierluigi Collina nella sua intervista a Repubblica?
«Sono contrario. Io sono un tradizionalista, per me il nostro gioco era più bello prima. Ho già accettato con fatica l’ingresso della tecnologia, anche se ne capisco l’utilità. Ora spero proprio che non tocchino i rigori. Lì c’è la bravura di chi calcia, l’abilità di chi para e la prontezza di chi va sulla ribattuta per proteggere il suo portiere o per segnare. Perché mai l’azione dovrebbe finire con l’errore di chi calcia?».
Sarebbe un modo per equilibrare una sfida in cui, statistiche alla mano, il portiere ha molte meno possibilità dell’avversario.
«Ma il rigore non nasce da solo, per un capriccio dell’arbitro. È la pena per un errore, un fallo commesso nella propria area. Si punisce un’infrazione commessa e confermata dal Var. Non capisco perché dovrebbero cancellare ciò che succede dopo la respinta».
Dopo la respinta, chi calcia è da solo in area e il portiere spesso è a terra. Un bel vantaggio.
«Però sulla ribattuta non segna solo il rigorista, ma anche i compagni. A dimostrazione che certe abilità si allenano. E un’eventuale modifica del regolamento ce le farebbe perdere».
Il rigore è un duello. Lei come lo affrontava?
«Prima decidevo un angolo dove tirare. Poi però facevo un ultimo passo più lungo e intanto guardavo fisso il portiere per vedere se muoveva un piede da una parte o dall’altra, così da cambiare direzione al tiro nel caso in cui si fosse tuffato proprio lì. Non era una questione di tecnica ma di lucidità e di freddezza. Ho conosciuto tanti giocatori che in allenamento erano infallibili ma poi in partita si facevano fregare dalle emozioni».
Quali avversari erano più difficili da battere?
«Ce n’erano tanti, ai miei tempi. Handanovic ne parava parecchi. Come Abbiati. E poi Dida, Peruzzi. Mi facevano più paura quelli alti e quelli dotati di grande esplosività. Ma ero consapevole che tutti mi studiavano e sapevano che decidevo solo all’ultimo dove tirare. E allora anche loro ritardavano il più possibile il momento del tuffo. Una battaglia di nervi, insomma».
Si allenava tanto sui rigori durante la settimana?
«Pochissimo. Ne battevo al massimo un paio il giorno prima. Non aveva senso provare e riprovare, per come calciavo io. Le emozioni e la concentrazione della partita non si possono riprodurre per un gesto così».