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Premier League, plusvalenze e deficit: la bolla finanziaria che inguaia gli inglesi

Il campionato inglese è in rosso per 816 milioni. E i club già studiano artifici contabili

DORTMUND — Se stasera Olanda-Inghilterra finisse ai rigori, non ci sarebbe da stupirsi, visto l’andazzo di quest’Europeo. Fissarsi sulla borraccia del portiere Pickford, subito immortalata dal web con le istruzioni che gli hanno permesso di parare il rigore decisivo dello svizzero Akanji, significa però guardare il dito e non la luna.

La terza semifinale di Southgate (una al Mondiale e due agli Europei) non può nascondere infatti la sottaciuta crisi finanziaria in atto nel calcio inglese. Pickford è innanzitutto il portiere dell’Everton, club penalizzato insieme al Nottingham Forest per la violazione delle regole sulla sostenibilità: il simbolo della crisi finanziaria di mezza Premier League. Il campionato di calcio più ricco del mondo negli ultimi anni si è comportato da cicala. Adesso corre un po’ ai ripari, ma ha perso la fama di bengodi nonostante i 4 miliardi di euro di diritti tv all’anno.

Se i due assi nella manica di Southgate, Bellingham e Kane, giocano nel Real Madrid e nel Bayern Monaco, solo 10 loro compagni appartengono ai 5 club più ricchi del calcio inglese e senza apparenti problemi finanziari: Manchester City (accusato però di ripetute violazioni delle regole del Financial fair-play inglese), Manchester United, Arsenal, Tottenham e Liverpool. A fronte di ricavi complessivi per quasi 7 miliardi, nell’ultima stagione i bilanci hanno fatto registrare un deficit per 816 milioni totali, soprattutto per gli stipendi d’oro. Nelle serie inferiori la situazione è ancora più delicata: lo dimostrano i fallimenti di Bury e Macclesfield Town. Oggi è al centro dell’attenzione il caso del Leicester, appena risalito in Premier ma subito a rischio penalizzazione. Le regole introdotte nel 2013 prevedevano che un club non potesse perdere in tre anni più di 105 milioni di sterline (122,6 milioni di euro). Ma le attuali conseguenze, con le concrete penalizzazioni in classifica, stanno spingendo la maggioranza dei club a chiederne una revisione meno punitiva proprio nel momento in cui il nuovo Ffp dell’Uefa rende più complicate le acrobazie di finanza creativa e il governo britannico ha studiato l’introduzione di un organismo — l’Ifr, Regolatore indipendente del Football — che vigili sulle operazioni di calciomercato e sui passaggi di proprietà.

Era stato il governo conservatore di Sunak a programmare l’entrata in vigore dell’Ifr, e pare improbabile che i laburisti di Starmer, vinte le elezioni, possano fare marcia indietro. Eppure la tentazione dei club è di arrangiarsi un po’ all’italiana, nell’accezione deteriore: con plusvalenze e alchimie finanziarie, tipo quella messa in atto dal Chelsea, che dopo l’era dell’oligarca russo Abramovic non ha trovato l’equilibrio dei conti con lo statunitense Boehly. La vendita di due hotel di proprietà del club a una società riconducibile a Boehly stesso è stata per il momento stoppata dalla commissione indipendente della Premier. Anche la Brexit ha complicato le cose: per entrare da stranieri nel territorio britannico, bisogna avere giocato un numero minimo di partite nei campionati più importanti, il che rende più difficile l’ingaggio dei giovani, accentua la tendenza a cercare i più esperti (e più costosi) e alimenta la scelta delle multiproprietà, per lo più americane: parcheggiare i potenziali talenti nei club satellite degli altri campionati, per poterli poi trasferire in Premier League, quando hanno acquisito il curriculum richiesto.

Nella stagione dell’imprevisto flop nelle coppe europee, che ha parzialmente smitizzato il campionato inglese, tocca dunque ai Three Lions rimetterne a posto l’immagine. E non c’è niente di meglio di quel titolo europeo che tre anni fa l’Italia di Mancini si prese a Wembley.

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