Se cercate Pulisic, lo troverete dentro un gol del Milan. E se guardate dentro un gol del Milan ci troverete Pulisic, perché non c’è partita (salvo la prima contro il Torino e quella di Leverkusen, l’unica senza reti rossonere) in cui l’americano non abbia segnato o fatto segnare: c’è un rapporto diretto tra i destini milanisti e le vicende del giocatore migliore della squadra, che non è Leao. Pulisic al Milan ha trovato la sua dimensione: quando s’è trovato della concorrenza in casa (Sancho nell’ultimo anno a Dortmund, la pletora di ali e fantasisti che infagottano le rose smisurate del Chelsea) non è mai riuscito a districarsi, ha perso sicurezze e spesso il posto, s’è incupito, persino infortunato. Al Milan, come al Borussia fin dai primissimi tempi (era sedicenne quando Klopp lo aggregò alla prima squadra, diciassettenne quando Tuchel lo fece esordire, rinunciando all’idea di farne un terzino), Pulisic si sente nella sua zona di conforto. Non è in discussione ma anzi un riferimento e allora il dribbling gli viene lieve, per gli assist gli basta sbirciare con la coda dell’occhio, il gol lo fiuta di continuo e poi lo festeggia, lo vedete, non esibendo l’orgoglio per averlo segnato ma la contentezza perché lo ha segnato la squadra. Lo stesso gli capita nella nazionale Usa, di cui è capitano da quando aveva vent’anni: è il calciatore migliore della storia del soccer (nonché il primo ad aver giocato una finale di Champions, Chelsea-City nel 2021), lo sa, ne sente la responsabilità ed è pure una produttiva macchina da marketing (la proprietà americana ne gode).
La lettera di scuse agli americani
Quando gli Usa fallirono la qualificazione a Russia 2018, scrisse una lettera aperta intitolata 1834 days (i giorni che mancavano al Mondiale successivo) in cui criticava il sistema formativo del soccer e spiegava come si sarebbe impegnato per cambiare le cose. Pulisic, insomma, è quel genere di leader che non si impone ma indica la via. Dà prima di pretendere. Ha bisogno di compagni che non ne tradiscano la fiducia. Quando a Firenze prima Théo e poi Abraham hanno battuto (e sbagliato) rigori che sarebbero spettati a lui, non ha avuto l’arroganza per impedirglielo e rispedirli al loro posto, perché al loro posto non si sarebbe comportato così.
L’ottimo affare del Milan per prenderlo dal Chelsea
Pulisic è stato un ottimo affare, il migliore di questa dirigenza, anche se già la coppia Maldini-Massara aveva tentato il colpo, ma non le avevano autorizzato la spesa. È stato pagato 20 milioni appena (nel 2019 il Chelsea ne aveva spesi 62, facendone l’americano più costoso di sempre) perché gli anni a Londra non erano stati all’altezza delle sfavillanti promesse di Dortmund: oggi è tornato a valerne almeno 40, ma è inutile stabilirlo con precisione perché i rossoneri non possono, né vogliono, fare a meno di uno che, denominando i ruoli con i numeri come si fa all’estero, può fare il 7, l’11, il 10, il 9 e pure l’8. Ricorda Donadoni ma anche Figo, che era il suo idolo d’infanzia.
L’infanzia vicino alla fabbrica di cioccolato
Un’infanzia errante cominciata a Hershey, cittadina della Pennsylvania che porta il nome della fabbrica di cioccolato più famosa d’America, proseguita in Inghilterra, vicino a Oxford, dove sua madre Kelley (che giocava nella squadra di calcio dell’università) si trasferì per un anno dopo aver vinto una borsa di studio per insegnare (il settenne Christian cominciò lì, nel Brackley Town), continuata a Detroit dove il padre Mark faceva l’allenatore di futsal (osservando i brasiliani lui ha imparato i trucchi del dribbling stretto), poi in Florida nell’accademia del federcalcio Usa e infine a Dortmund, dove arrivò quindicenne assieme a papà (“Non sapevamo cucinare, mangiavamo sempre pollo fritto del fast food”) dopo diversi stage in Europa, anche con Barcellona e Chelsea. Scelse il Borussia per l’attenzione ai giovani che hanno i gialloneri ma dovette aspettare sei mesi per venire tesserato, visto che ai minorenni extracomunitari non è permesso. Poté farlo quando ottenne il passaporto croato (Pulisic lo si può pronunciare sia con la c dolce, alla slava, sia dura, all’americana) grazie alle radici del nonno nell’isola dalmata di Ulbo, per quattro secoli territorio della Repubblica di Venezia.
La nonna siciliana, il feeling con l’Italia
Sua nonna (di cognome Di Stefano) era invece siciliana e insomma l’Italia è il posto suo, difatti si trova meglio a Milano che a Londra e dell’infornata di stranieri arrivati dall’estate del 2023, è quello che s’è integrato meglio. Si sente a casa, e i milanisti sono felici d’avercelo, in casa.