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Rino Gattuso, l’Italia si affida a lui per trovare l’America

Ufficiale: al ct contratto di un anno a 800mila euro più i premi. Obiettivo: i Mondiali 2026. Il nuovo ct dovrà riportare le vibrazioni di Berlino e il senso di appartenenza

Milano – Da ieri Rino Gattuso è ufficialmente il nuovo ct dell’Italia, una settimana dopo l’esonero di Luciano Spalletti. Dovrà inseguire la qualificazione al Mondiale ed evitare il terzo fallimento consecutivo. Gabriele Gravina lo ha investito formalmente ieri: «Gattuso è un simbolo del calcio italiano, l’azzurro per lui è come una seconda pelle. Consapevole dell’importanza dell’obiettivo, lo ringrazio per la disponibilità e la totale dedizione con cui ha accettato questa sfida, condividendo il progetto di sviluppo del nostro calcio».

Il sostegno di Buffon

Gattuso, sostenuto da Buffon e già accolto da un plebiscito informale tra i senatori, non ha fatto questioni di soldi: contratto annuale da 800mila euro netti, premio di un milione per la qualificazione, con il verosimile prolungamento al 2028. La ragione per cui ha superato i concorrenti è la necessità di restituire alla Nazionale, nella percezione dei club, dei giocatori e dei tifosi, il ruolo prioritario ormai smarrito.

Quella frase in faccia a Beckham

L’identificazione di Gattuso con la maglia azzurra è avvalorata da decine di episodi e frasi cult nei dieci anni in campo. Lui ventiduenne che segna l’ unico gol azzurro all’Inghilterra e urla in faccia a Beckham, dopo una simulazione: «This is not a swimming pool», non siamo in piscina. Lui che, diffidato, alla vigilia della semifinale del 2006 a Dortmund esorcizza la paura di un’ammonizione: «Il cartellino io me lo mangio». Lui che si commuove, al ritorno di notte nel ritiro di Duisburg, alla vista di ottomila immigrati italiani, come erano stati per breve tempo anche papà Franco e mamma Costanza, partiti dalla Calabria per lavorare: «Noi calciatori ricchi abbiamo fatto felice almeno per un po’ chi fatica da straniero ad arrivare a fine mese». Lui, cavaliere della Repubblica, che in Sudafrica sintetizza l’eliminazione del 2010: «Siamo i cavalieri della vergogna». O ancora lui che nel 2002 a Seul, dopo l’eliminazione per mano della Corea del Sud e dell’arbitro Moreno, consola uno a uno i compagni insonni seduti per terra nella hall dell’albergo.

Quella telefonata con Gianni Mura

O Gattuso che nel 2006 piange disperato al telefono per lo strappo muscolare nell’ultima amichevole con la Svizzera: si sente un intruso, impossibilitato ad aiutare i compagni. Gianni Mura lo tranquillizza: «Non ti preoccupare, Rino, sono sicuro che recupererai e che potrete vincere il Mondiale». Succederà esattamente questo. Lui a Duisburg farà 7 ore di fisioterapia al giorno, guarirà e sarà fondamentale per il gruppo: la sua stanza diventerà il raduno naturale della squadra. Lo ha detto di recente Buffon a Coverciano al corso per direttori sportivi, chiamato in cattedra a raccontare quel Mondiale: «I leader erano due: Fabio Cannavaro, il capitano, e Rino Gattuso, l’anima».

Una nuova carriera

Però, quando ha smesso di giocare, Rino ha capito che quello era il passato: «Da allenatore riparto daccapo, devo rimettermi in discussione». Oltre al soprannome Ringhio, vagamente ingannevole perché si tratta di un burbero benefico, fuori dal campo ha conservato i capisaldi. L’attaccamento alla famiglia, alla moglie Monica conosciuta a Glasgow ai tempi dei Rangers e ai figli Gabriela che studia moda a Milano e Francesco, studente e calciatore in Spagna. L’affetto per i genitori e per le sorelle Ida e Francesca, scomparsa mentre lui allenava il Napoli. Il profondo senso dell’amicizia. La capacità di superare la malattia agli occhi, la miastenia oculare raccontata in pubblico. L’attività di imprenditore con la pescheria e il ristorante a Gallarate.

Gattuso abituato alle imprese difficili

Ora deve riportare la Nazionale al Mondiale. La carriera in panchina iniziata 12 anni fa è priva di grandi vittorie, ma spesso è valutata con parecchia superficialità: tante le difficili imprese in cui si è lanciato, per lo più lontano dall’Italia. In A ha allenato solo un Milan minore e un Napoli senza il San Paolo, svuotato dal Covid. Alle prese con situazioni ambientali e societarie complicate (Creta, Valencia, Marsiglia, Spalato), ha ovunque puntato a una priorità: creare un gruppo unito e fondato sulla disciplina (all’Hajduk Perisic è finito fuori rosa perché primadonna insofferente alla richiesta di dare il buon esempio ai più giovani), accompagnando la tattica alla voglia di stare insieme. Ora l’importante è che porti l’Italia in America.

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