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Salvatore Giglio è morto: fu il più grande fotografo della Juventus, suo lo scatto di Platini

Originario di Palermo, per quasi 50 anni seguì passo passo la Vecchia Signora e partecipò a sette mondiali: era un lottatore, capace come pochi di acciuffare l’attimo

Nessuno aveva scattato più fotografie alla Juve, e nessuno ne aveva scattate di più belle. Due milioni di immagini popolavano come creature vive l’archivio fantasmagorico di Salvatore Giglio, per quasi mezzo secolo il fotografo ufficiale dei bianconeri ma molto di più. Se n’è andato in dissolvenza a 77 anni, dopo essere stato preso a pugni da una lunga malattia alla quale, peraltro, anche Salvatore era riuscito a mollare qualche cazzotto mica da ridere. Perché lui era tosto, era rude in apparenza, con quella faccia da cattivo da film, ma quando avevi bisogno c’era. Sempre, e con enorme generosità.

Sarebbe bello, e sarebbe anche giusto, che le foto più memorabili, quelle che ci ballano negli occhi per anni o decenni, avessero scritta in sovrimpressione anche la firma dell’autore. Un solo esempio: Platini disteso sull’erba a Tokyo, dopo il più bello dei suoi gol ingiustamente annullati, o forse il più bello in assoluto: quell’espressione arresa e sconsolata, eppure di sfida e di superiorità. Questo è il destino?, sembra chiedersi Michel. Ok, allora io mi ci sdraio sopra. Quella foto che oggi, con un termine orribile, in molti definirebbero “iconica”, la scattò proprio Salvatore nel 1985, durante la finale della Coppa Intercontinentale che la Juventus comunque vinse.

Come quello scatto, tantissimi, scappati via nella coda del tempo che è come un serpente, come una lucertola, e nessuno può afferrarlo. Salvatore Giglio era nato a Palermo nel 1947 e nessuno gli aveva regalato niente. Era un reporter di trincea, non di tribuna. Uno di quei lottatori da campo e fango, capace come pochi di acciuffare l’attimo, quello sì, lui sì, irripetibile. I numeri di Salvatore e il suo ineguagliabile curriculum dicono che aveva seguito 7 Coppe del Mondo e 9 Europei, e oltre mille partite della Juve. Mille. Però, questa non è una storia di quantità ma di qualità. Perché una foto di Giglio era una foto di Giglio, e basta. Il maestro. Il più bravo di tutti.

Era il più bravo di tutti anche perché correva da isolato e non si faceva mai intruppare, non seguiva il gregge ed era infastidito, semmai, se altri lo seguivano: per questo non era simpatico. Ma era vero, era caparbio, era “il fotografo della Juve” finché la fredda modernità dei contratti in esclusiva non gli aveva tolto il ruolo solenne, per affidarlo ad agenzie che nulla avevano a che fare con lui. Lui che era un grande fotografo, mentre gli altri si limitavano a fare fotografie, il più delle volte banali.

Salvatore era una montagna di storie e fatica, perché il fotografo è lo sherpa di sé stesso, costretto a trascinare borse e valigie piene di attrezzature costosissime che nessuna assicurazione può coprire totalmente, e sa il cielo quante volte questo materiale si rompe nella mischia o viene rubato. Il fotografo galoppa, si smazza il peggio per avere il meglio, sgomita e suda, e ogni scatto non fatto è perduto per sempre, alla faccia delle tecnologie digitali che moltiplicano le opportunità ma non le pupille, non l’istinto animale, non il cuore.

Le foto bellissime, uniche, di Salvatore Giglio hanno riempito libri e mostre, e gli sono valse il riconoscimento dell’Uefa che lo ha inserito tra i 14 migliori fotografi del calcio mondiale. Ne era orgoglioso ma non ne parlava mai, perché Salvatore era un po’ chiuso e non sprecava il fiato. Lo conservava, piuttosto, per essere sempre pronto su piazza, sempre il primo. Ora è andato a raggiungere gli altri fuoriclasse dello sguardo che se ne sono già andati, colleghi e amici irripetibili come Alberto Ramella, altro drago dell’obiettivo che ci ha lasciato troppo presto. Quanto li abbiamo visti trascinare le loro sporte nella pioggia, nella neve e sotto il sole feroce, a volte malconci e mal pagati, quanto li abbiamo amati.

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