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Scudetto Napoli, l’impresa eccezionale della normalità: ’o miracolo si ripete ma senza eroi

Una corsa con un filo di gas, mentre le avversarie andavano in folle. Dalla vittoria è scomparsa la retorica

Come ci ha insegnato Lello Arena all’inizio del film Ricomincio da tre esistono «’O MIRACOLO!» e «’o miracolo». Per chi guarda da fuori e da lontano ogni trionfo napoletano è sempre un miracolo puro e semplice (anche se avviene due volte in tre anni e poi si ricomincia da quattro), ma in realtà configura una delle altre due categorie. O l’eccezione, la svolta narrativa, l’epica dei cavalieri che fanno l’impresa destinata a restare nella storia, l’incidente astrale, il soldo piovuto dal cielo, la battaglia memorabile, il murale incancellabile e la sveglia ai defunti che hanno mancato l’appuntamento irripetibile. O la regola camuffata, la maglia rosa finale al passista che non vinse una tappa, la tarantella come sottofondo, senza mai esplosioni, l’aria che sempre ribolle senza che il Vesuvio erutti, un aiuto da parte dei nemici e una formazione che gli amici da qui a dieci anni cercheranno di ricordare e ne mancherà sempre uno, come quando provi con i sette nani (lì, di solito, Gongolo; qui il terzino sinistro). Perfino, una rosa con i petali a perdere, l’ultimo (Kvara) il più colorato. Come la barzelletta del bambino in bici: “Guarda, mamma! Senza mani! Senza piedi…” e quando dovrebbe toccare a: “Senza denti…” ha invece già tagliato il traguardo. Con la faccia di Okafor, l’imbucato che il buco non riempì.

Napoli, trionfo senza insostituibili

‘O miracolo è avvenuto in sordina partendo con un tonfo: 0-3 a Verona con doppietta di Mosquera (che altro resterà di costui?). Quella sconfitta ha acceso la pentola del mugugno di Conte, fuoco sotto una squadra che pure era stata costruita con più di 100 euro. E non ha mai tolto il senso di incredulità mentre il livello dell’acqua saliva. L’impresa eccezionale è stata realizzata nel più normale dei modi. Senza una figurina che si stacchi dall’album. Né Maradona né Careca. L’uomo decisivo è stato uno scozzese, McTominay, scartato dal Manchester United. Rispetto allo scudetto di due anni fa sono spariti presunti insostituibili (categoria che, come noto, affolla i cimiteri): Giuntoli, Spalletti, Kim, Osimhen. L’anno scorso erano falle, quest’anno polvere. La chiave è stato un allenatore che strada facendo ha divorziato dal presidente e a viaggio non ancora concluso ha messo sul letto la valigia per ripartire. I governatori vogliono il terzo mandato, gli allenatori del Napoli manco il secondo. Altrove una cosa così ha impallato il motore, a Napoli no. Forse perché la squadra non ha viaggiato mai a pieno regime.

I gol scudetto del Napoli li hanno segnati gli altri

Ha fatto pochi punti per essere campione, ha segnato pochi gol, non ha espresso il capocannoniere, ha avuto la sua dose di infortuni, non ha mai dominato, non è mai stata in fuga, ha messo il muso avanti, si è fatta riprendere e superare, ma ha arrancato con un filo di gas mentre le avversarie andavano in folle. Ha volato con le ali degli altri: Soulé della Roma, Orsolini del Bologna, Pedro della Lazio. Hanno segnato loro le reti che hanno tolto alla rivale (l’Inter) il posto in vetta: quattro punti con cui l’esito si sarebbe ribaltato. Il Napoli ha vinto come Phileas Fogg è riuscito a compiere il giro del mondo in 80 giorni: quando credeva di non avercela fatta ha scoperto che il fuso orario gliel’aveva invece consentito, dall’altra parte del mondo era scesa la notte e il suo pallido giorno era quello del trionfo. Resta una conquista e lo diventa ancor di più perché non ha avuto bisogno di interventi celesti, mani di Dio, piedi fatati. Testa sul manubrio, invece, muscoli imballati, sudore, ma avanti. Non è così che la tartaruga batte Achille? È un paradosso, eppure è accaduto.

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