MILANO — C’erano una volta le litigate in favore di camera di Gaucci e Matarrese. O le sfide a colpi di assegni tra Moratti e Berlusconi per assicurarsi un centravanti dell’Honduras. Il campionato dei mecenati, dei presidenti che vivevano la propria squadra come un gioco d’amore, si sta esaurendo. Una linea è stata superata, difficilmente si tornerà indietro: non succede solo in Italia, in Premier solo 4 club hanno alle spalle gruppi interamente britanniche. Da tempo il nostro campionato ha preso la stessa strada: con la cessione del Verona agli americani di Presidio Investors sono diventate 11 le proprietà straniere in serie A: più della metà. A far la voce grossa sono le società a guida nordamericana, già 9, quasi la metà del totale. In serie A sono 8 quelle con timonieri made in Usa (Atalanta, Bologna, Fiorentina, Inter, Milan, Parma, Roma, Venezia e Verona), a cui aggiungere il Bologna del canadese Saputo. Poi ci sono anche il Como dei fratelli indonesiani Hartono e il Genoa rilevato poche settimane fa dal rumeno Sucu. Il pallone da affare di famiglia si è trasformato in un business, un sistema che genera e in cui girano moltissimi soldi. E, per questo, inizia a fare gola.
Perché gli americani investono in Serie A
Ma come nasce questa passione a Stelle e strisce per la serie A? Chi compra, lo fa per un motivo, principalmente: le condizioni a cui si acquista. Difficile che un imprenditore rilevi oggi la propria squadra del cuore, come quando il tifoso Galliani convinse l’amico Berlusconi a prendere il Monza, che infatti oggi, senza più il suo mecenate, è rincorso da voci di cessione. Oggi non si compra, si investe. E farlo in Italia conviene più che altrove. Situazione economicamente difficili consentono spesso di strappare condizioni migliori, alzando il margine di crescita. Oltre al fatto che il pallone, nonostante tutto, continua a essere una calamita per milioni di persone. Chi arriva cerca di valorizzare i club, renderli più internazionali, porre un’attenzione maggiore ad aspetti commerciali e infrastrutturali un tempo trascurati. I presidenti-padroni si concentravano sul calciomercato, sul campione che accendeva i tifosi. Le nuove proprietà guardano al medio-lungo periodo e hanno una priorità condivisa: avere uno stadio moderno, funzionale, che sia attivo tutti i giorni, che produca utili prima, durante e dopo le partite. Quante volte lo avete sentito dire?
Il modello sportivo americano
Il modello è quello americano, ma i manager che gestiscono i club sono quasi sempre italiani. Affidarsi a dirigenti di campo, che conoscono le dinamiche del pallone, è stata una scelta condivisa. Il Verona, ad esempio, è stato acquistato dal fondo texano Presidio Investors, che però ha tenuto il presidente uscente Setti come consulente dell’area sportiva accanto al ds Sogliano. Ci sono anche casi a parte. Come quello di Commisso, imprenditore italo-americano che ha fatto fortuna negli Usa e ha acquistato la Fiorentina nel 2019 quasi per riallacciare il cordone ombelicale con il suo Paese d’origine. O del bolognese di Montreal Saputo.
I club con proprietari italiani
Le proprietà americane hanno fatto fronte comune anche in Lega serie A, alleandosi con le grandi con cui condividono una strategia più manageriale hanno sovvertito l’equilibrio che storicamente premiava il gruppo guidato da De Laurentiis e Lotito. Non a caso, due degli ultimi mecenati italiani. In tutto sono solo 9 le società rimaste in mani a imprenditori locali: Cagliari, Empoli, Juventus, Lazio, Lecce, Monza, Napoli, Torino e Udinese. Poi ci sono proprietari che dell’Italia vogliono sfruttare il fascino per trasformare il calcio in business. Come a Como i fratelli Hartono, patrimonio di 47 miliardi di dollari, la proprietà più ricca della serie A: un’analisi di Calcio e Finanza ha stimato investimenti per 136,8 milioni di euro dal 2019 ad oggi. E tutto lascia credere che questo, per loro, sia solo l’inizio.