DONAUESCHINGEN — Siamo ai margini della Foresta Nera, tra prati che digradano verso dolci colline oppure si oscurano quando di colpo s’alzano gli abeti e comincia il bosco. Donaueschingen è il feudo dei Fürstenberg, che qui hanno castello e birreria di famiglia, ma soprattutto il luogo dove si trovano le sorgenti del Danubio, il fiume più europeo che ci sia: ha un senso che la Spagna sia venuta qui a ritrovare la sorgente di sé, la sorgente del calcio. Gli spagnoli stanno nell’hotel più lussuoso tra i 24 che hanno ospitato le nazionali — tre campi da golf, un ristorante con due stelle Michelin e camere da 500 euro a notte — e non hanno badato a spese: hanno portato tre camere iperbariche, due macchinari per la crioterapia e uno per la fototerapia che in tutto valgono 200 mila euro e c’è un’attenzione precisa a livello medico, psicologico, nutrizionale (una curiosità? A fine gara, viene servito del sushi). Questa sofisticatezza scientifico-tecnologica è l’altra faccia della medaglia di una squadra che invece s’è formata all’antica, che gioca un calcio semplice e perciò, oggigiorno, sfuggente e s’è lasciata alle spalle le alchimie cerebrali di Luis Enrique, che in Qatar riuscì a farsi eliminare dal Marocco dopo una partita con 1.019 passaggi e un solo tiro in porta (la teoria non trasferita alla pratica).
Il segreto di De La Fuente
De la Fuente ha dato un colpo di spugna a ogni esasperazione e reintrodotto il calcio infantile, addirittura di strada (è per strada che hanno cominciato Williams, Yamal e anche Fabian Ruiz, che sta giocando un torneo gigantesco): si tiene la palla perché l’istinto è quello, ma seguendo l’inclinazione, le intuizioni del momento, i dribbling delle ali, le scorribande del terzini. Non c’è nulla di meccanizzato, se non i movimenti del pressing. È perfetta la sintesi di Rodri: «Con il pallone, comportarsi da grande squadra. Senza, da piccola squadra».
Le sneakers della svolta
In realtà, la nascita di questa Spagna la si fa risalire alla vigilia della trasferta in Georgia di settembre, dopo una sconfitta in Scozia. Una volta a Tbilisi la delegazione scoprì che non era stato imbarcato il cassone con le scarpe da gioco ma, invece di scatenare la caccia al colpevole, la squadra la prese con allegria: s’allenò in sneakers e quel disagio saldò il gruppo come mai prima. L’indomani le scarpe arrivarono, la Spagna vinse 7-1, debuttò Yamal. Segnò.
La filosofia della Spagna
De la Fuente è uno dei ct meno pagati dell’Europeo (poco più di un milione, un quinto di Southgate), ma ha davvero rivitalizzato la sorgente con un motto, es de todos (è di tutti), che si è portato dalle nazionali giovanili dove ha lavorato per 10 anni (lui ne ha 63): non ha insistito sulla tattica ma su condivisione, mutualità, avvicinamento delle parti. «Ci ha chiesto una sola cosa», ha detto Merino, quello del gol alla Germania. «Non fare smorfie se non sei titolare e divora il campo quando tocca a te». La parola che il ct ripete più spesso è familia e campeggia anche al campo d’allenamento assieme a “unione, squadra, lavoro, sforzo”.
De La Fuente, un tecnico federale
Come dicono gli spagnoli, l’ambiente è così disteso che sembra di remare nell’olio grazie al pacificatore De la Fuente, un Azeglio Vicini del terzo millennio. I cardini del suo pensiero: «Non serve la faccia cattiva o la maleducazione per dimostrare carisma. Sono per dialogo, rispetto e spiegare tutto ciò che si può spiegare. Se volete farmi un complimento, ditemi che non ho il profilo da allenatore d’élite». Uno dei collaboratori è lo psicologo Javier Vallejo, ex portiere dell’Osasuna, che si occupa di affinare i discorsi del ct per renderli più incisivi. Il clima è idilliaco come paesaggi e paesini del Baden-Württemberg, dove splende il sole e d’improvviso piove. Come in campo, quando uno scroscio di fantasia di Yamal interrompe l’allegria solare del palleggio.