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Tra latinos, calcio, ufficio immigrazione e tregua di Trump. L’altro volto del Mondiale per Club

Su pressione del presidente della Fifa Infantino, preoccupato per la presenza del pubblico, c’è stata meno attenzione per gli immigrati latini negli stadi. Ma dopo la finale i tifosi torneranno a essere prede

NEW YORK – Non è che la passione per il calcio svanisca, sai. Puoi pure minacciare di arrestarli, schedarli, deportarli prendendoli a calci. Ma quella resiste. Anche se diventa un’altra cosa: istinto di sopravvivenza, voglia di non perdere una parte di sé stesso. E quando la paura prevale, è una sconfitta peggiore di quella vissuta sul campo. Cesar, che vive in Louisiana, aveva preso i biglietti delle due semifinali del Mondiale per club, pagando più di 800 dollari, ma li ha dovuti regalare. Javier, ecuadoriano residente a Denver, Colorado, alla fine ha deciso di non partire e ha chiesto a un amico di mettere in vendita il suo tagliando. Però ci sono anche quelli come José Luis, a ricordarci che non è solo calcio: viene dal New Jersey, ha scelto di rischiare e si è presentato allo stadio indossando la maglietta gialla della sua nazionale, quella dell’Ecuador. Ma con la saggezza sudamericana, è pronto a sfilarsela: sotto ha una maglietta bianca, nel caso dovesse vedere qualche agente nei dintorni. Ti fa l’occhiolino come segno d’intesa: un’altra maglietta con una temperatura di quasi quaranta gradi non è un accorgimento contro il caldo, ma contro la paura. L’avversario stavolta non è l’altra squadra, ma gente armata o con il volto mascherato.

Senza i tifosi latinos, stadi mezzi vuoti

Ora che è in fila per acquistare una birra gelata a quindici dollari, nell’intervallo di Chelsea-Fluminense al MetLife Stadium, José Luis si collega in videochiamata con la famiglia, e dice: “Tutto sotto controllo, chicos”. Se sei qui non è solo per il calcio. E’ perché non vuoi perdere una parte della tua vita. Il Mondiale per Club che si gioca negli Stati Uniti è arrivato a tre giorni dal gran finale ma il bilancio della paura è ancora tutto da scrivere. A un anno dai Mondiali che si giocheranno in Usa, Messico e Canada, il terrore di finire in un raid dell’ufficio immigrazione ha tenuto lontani molti tifosi ispanici. I dati non ufficiali indicano in un calo di presenze del venti-trenta per cento, in alcuni casi anche del quaranta. In molti stadi c’era meno di un terzo degli spettatori. Diecimila posti sono rimasti vuoti per la semifinale tra Chelsea e Fluminense, vinta dagli inglesi 2-0, eppure i biglietti erano disponibili su canali alternativi anche per poche decine di dollari. Le immagini recenti di arresti per strada e le deportazioni di donne e bambini spaventano. Alla vigilia dell’inizio del torneo l’Ice, l’agenzia federale dell’immigrazione, aveva postato un messaggio su X per dire. “Buon torneo a tutti, ci saremo anche noi allo stadio”.

Precauzioni ed escamotage in caso di controlli

Volevano trasformare i parcheggi degli impianti in centri commerciali sotto sorveglianza. Il segretario della Fifa, Gianni Infantino, si era infuriato e aveva chiesto al suo nuovo amico, Donald Trump, di tenere alla larga dagli stadi gli agenti federali. Non era buon cuore, ma senso degli affari. I latinos rappresentano l’ottanta per cento del pubblico presente negli stadi. Se restano a casa loro, il cuore del calcio si ferma. Anche al MetLife, in questo monumentale impianto a pochi chilometri da New York, ostinati immigrati hanno riempito lo stadio. Francisco Lobo Parrillo, ecuadoriano e cittadino americano, dice che la gente arrivata fin qui è affetta dalla “sindrome della sopravvivenza”. Molti si sono portati un secondo passaporto, per precauzione. Un ragazzo del Queens dice di aver dovuto convincere i suoi cinque amici messicani a non venire, per non rischiare l’arresto.

La paura dell’identificazione

A Nashville, il gruppo “La Brigada De Oro” ha sospeso ogni tradizione pre-partita per paura di venire identificati. Al Mondiale il governo ha accettato la tregua. Trump vuole diventare la star del prossimo Mondiale: ha dato alla Fifa un piano della Trump Tower sulla Fifth Avenue come quartier generale. Così nell’area intorno al MetLife non c’era ombra di agenti federali. Ma fin dove è il limite di sicurezza? Cesar aveva un passaporto canadese e il permesso di residenza in Usa. Il secondo gli è scaduto, e adesso per prendere l’aereo gli chiedono un documento ufficiale di identità. “Il passaporto canadese – racconta per telefono – non me lo accettano più. Gli amici mi hanno detto di provare lo stesso, ma alla fine ho rinunciato”. Javier dice invece che resisterà ancora un anno, poi se ne tornerà a casa: “Vivo qui da dieci anni, lavoro in una ditta di costruzione, mi vogliono tutti bene, ma tra poco me ne andrò. Mi sto perdendo la crescita dei miei figli, tutti i loro momenti più importanti. E questo Paese non è più l’America”.

Lunedì a torneo finito, finirà la tregua

Quando parli con gli immigrati che ti circondano sugli spalti, se lo fai sul calcio ti rispondono con entusiasmo, ti danno pacche sulla spalla, chiedono notizie di quell’italiano lì che cammina nervosamente davanti alla panchina, Enzo Maresca, l’allenatore del Chelsea. Ma se scendi sul personale cominciano a scrutarti con sospetto. Dietro ogni sconosciuto, in fondo, può esserci un agente dell’immigrazione. Ma il calcio resta una calamita irresistibile. Nel Chelsea c’è l’ecuadoriano Moises Caicedo, e tanto basta per attirare migliaia di suoi connazionali. E poi tifosi di Perù, Honduras, Argentina. Gente con indosso la maglia dello Sporting Recife e dell’Universitario e dell’Alianza di Lima. Tribù del calcio, senso di appartenenza, sospensione della paura. Lo stadio ultima terra libera d’America. La festa, i gol del Chelsea salutati come se fossero quelli di un club sudamericano. Poi il ritorno a casa, la lunga fila per salire sulle navette che riportano a New York tifosi stremati. Il viaggio infinito di quasi tre ore per coprire una decina di chilometri, a causa degli eterni ingorghi che portano alla città d’acciaio. “Nonostante tutto, dovevamo esserci, in fondo noi siamo il calcio in questo Paese”, confessa Javier Luis, prima di arrendersi alla fatica sul suo sedile, addormentato a bocca aperta, mentre alla sua sinistra lo skyline notturno di Times Square si sdoppia, il vetro imperlato in pochi istanti di una pioggia torrenziale. Da lunedì, finito il torneo, terminerà la tregua. E tutto tornerà come prima. I latinos smetteranno di essere tifosi, e torneranno a essere prede.

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