TORINO – Non sarà ancora una Juve impareggiabile, ma sta diventando una creatura adulta. Contro il Milan spariscono molti vizi di crescita degli adolescenti, quell’agitarsi senza troppo costrutto, quelle tempeste ormonali che svuotano e spaventano. No, stavolta la Juventus fa quello che voleva fare da grande: cioè diventare sé stessa, una squadra che non sparisce dalle partite ma le governa, crescendo con il trascorrere dei minuti invece di eclissarsi nei tremori. Soprattutto, i benedetti ragazzi bianconeri segnano il primo gol e poi il secondo, subito, riuscendo nell’impresa fin qui più ardua: chiudere una gara invece di esserne rinchiusi.
Il Milan scivola dentro allo spareggio Champions
Era uno spareggio Champions, e i rossoneri ci scivolano dentro. Il quarto posto solitario della Juve, pur nella provvisorietà della classifica, può indicare l’inizio di un tempo nuovo. Non tanto una conseguenza del mercato invernale o lo sviluppo di tattiche e costruzioni assolute, ma un più profondo viaggio dentro di sé, per vincere dubbi e insicurezze, per non ascoltare l’insidiosa voce della paura che, talvolta, può diventare anche paura di vincere. La strada verso la maturità è prima di tutto una faccenda di testa e di nervi, poi di palloni dentro la porta altrui: l’argomento principe di ogni analisi. Fare gol, e non prenderli.
La firma dei figli di papà
Sulla prima parte del programma, cioè fare gol, stavolta sono state le ali a dare respiro e altezza al gioco. Il giovane Samuel Mbangula, 21 anni tre giorni fa, prima intuizione a sorpresa di Thiago Motta al debutto e primo gol alla prima di campionato, fa la cosa giusta nella serata che non ammetteva errori: un tiro a giro senza pensarci troppo, questo sì un pregio della gioventù. sebbene deviato da Emerson Royal. E poi, dopo nemmeno quattro minuti, il secondo colpo d’incontro che piega le ginocchia all’avversario già vacillante: lo scaglia Timothy Weah, e fa un certo effetto un Weah che segna al Milan. Il tempo è una ruota, a volte di pavone, altre volte di mulino, e macina i ricordi. Babbo sarà comunque felice. Anche papà Thuram lo sarà non poco, perché il suo ragazzo è già la cerniera della Juve insieme a Koopmeiners, stavolta non ci sono sbavature o impurità nel centrocampo di sostanza dove il terzo perno, Locatelli che al momento è pure capitano, fa più che mai il suo dovere.
Non è poco, per una squadra ancora senza centravanti (Vlahovic si è rivisto negli ultimi dieci minuti, Kolo Muani si vedrà presto). Stavolta, nello spazio vuoto hanno orbitato altri corpi celesti, le ali che volano per definizione, gli incursori che devono occuparlo per crearne altro e, se possibile, colpire. Una girandola nella quale ha scintillato anche Yildiz, almeno finché non ha allungato troppo la gamba in un tentativo di tiro plastico e si è scoperto un doloretto all’adduttore: al suo posto Weah, il figlio di papà che non dissipa l’eredità.
Il grande rimpianto dell’infortunio di Bremer
Viene spontaneo domandarsi dove sarebbe, e soprattutto cosa sarebbe adesso la Juventus se non fosse mancato prestissimo Bremer, la cui presenza cambia quasi del tutto i movimenti collettivi di difesa e l’equilibrio tra i reparti (il brasiliano è un giocatore plurimo, ben più di un fortissimo centrale), e se ci fosse stato un centrattacco meno ondivago del serbo, frenato anche da noie fisiche. Quesiti che non possono avere risposta, ma che tengono aperto il dibattito rivolto a un futuro che è già cominciato in questo cruciale gennaio. Sabato c’è il Napoli, ma soprattutto adesso c’è la Juve.