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Vicario, l’intervista: “Sentirò Spalletti, a me ha dato tanto. Fare il vice non mi pesa”

Il portiere del Tottenham: “Noi calciatori non siamo supereroi, abbiamo anche momenti di sconforto. La parata migliore? Quella del “Dibu” Martinez”

ROMA – Ha messo le sue mani sulla coppa, regalando con una parata al 96’ un trofeo al Tottenham che non vinceva nulla da 17 anni. «L’Europa League è un trofeo pesante, per la storia del Tottenham. È stato epico». Guglielmo Vicario non era in Norvegia mentre l’Italia veniva tritata da Haaland, né a Coverciano durante il ribaltone in panchina, ma solo per un infortunio. «Spalletti è stato il ct che mi ha fatto debuttare, sono l’unico portiere da quando c’è Donnarumma che sia riuscito a giocare quattro partite in azzurro, gli sarò sempre grato».

Vicario, dopo l’esonero ha sentito Spalletti?

«Non gli ho scritto ancora, voglio mandargli un messaggio con ciò che sento e poi fare due chiacchiere tra persone che hanno condiviso un percorso sportivo di vita insieme».

Che rapporto aveva il ct con il gruppo?

«È stato il nostro condottiero, nel bene e nel male. Si sentiva investito di quel ruolo, ci ha dato tanto. Ripartiremo, con la consapevolezza anche di quello che ci lascia come eredità calcistica e morale».

Ma secondo lei cosa è successo alla Nazionale?

«Non vogliamo prenderci alibi, perché se perdi partite pesanti è inutile cercarli, devi assumerti le tue responsabilità. Dico però che siamo andati a giocare partite cruciali dopo una stagione con più di cinquanta partite a testa».

E ora inizia il Mondiale per club.

«Non c’è neanche più la sensazione di terminare una stagione e cominciarne una nuova. Questo è innegabile ed è il pensiero di tanti calciatori. Bisogna dare la possibilità a chi va in campo di rendere al cento per cento, e a volte non sei neanche al cinquanta».

Qual è il suo primo ricordo legato al calcio?

«Finale del Mondiale 2002, io ero pazzo di Oliver Kahn: la Germania perse con un suo errore e io rimasi come paralizzato. Scoppiai a piangere in braccio a mio papà: eravamo al mare, in vacanza. La mia passione è nata da lì, da quelle lacrime».

A proposito di sensibilità: lei e la sua famiglia avete ospitato Hanna e il figlio Milan, ucraini in fuga dalla guerra.

«Sono rientrati a casa lo scorso anno, perché il piccolo non vedeva il papà da due anni e queste sono dinamiche dolorose. Ma siamo in contatto, è stata una grande parentesi di crescita per me. Ci ha arricchito: tanti amici nella mia città conoscendo la storia hanno fatto cose simili, si è creata una catena del bene».

L’importanza di raccontarsi. Anche Buffon l’ha fatto, aprendo una finestra sulla sua depressione.

«Per tanti bambini siamo supereroi, idoli. Ma dietro l’atleta c’è una persona. E sì, abbiamo delle debolezze. Con delle sensibilità, con delle emotività. Con momenti di sconforto. Raccontarsi è doveroso, se può servire ad altri: Gigi è stato una grande ispirazione per me».

Da Gigi a Gigio: com’è il rapporto con Donnarumma in Nazionale?

«Un legame vero. Quando sono arrivato in nazionale lui aveva fatto 45 partite. Ora ne ha 74, questo racconta cosa sia Gigio. Ho solo grande rispetto, sono contento di fargli da sparring partner. Ma sono anche molto competitivo».

Be’, anni fa quando Buffon si fece male Toldo giocò un Europeo da stella assoluta.

«Io penso a Ter Stegen del Barcellona: è uno dei portieri più forti del mondo e nella Germania è sempre il vice-Neuer. Ederson nel Brasile è dietro Allison. Non mi turba essere il secondo, posso solo essere più competitivo».

In Nazionale ritrova Meret, cresciuto con lei a Udine. Come Scuffet e Provedel. Prima, il mito Zoff: il Friuli è la terra dei portieri.

«Anche Buffon ha origini friulane. Il segreto? Per me, i maestri eccezionali del settore giovanile dell’Udinese. Io, Meret e Scuffet eravamo tutti insieme, in Primavera, quando Scuffet esordì in serie A. Poi loro hanno proseguito insieme, io ho fatto un altro percorso».

È andato al Fontanafredda, serie D. In quel momento ha temuto che la sua vita nel calcio professionistico fosse già finita?

«Non nascondo che quando ho firmato per il Fontanafredda volevo solo divertirmi. Volevo staccarmi dal calcio dei ragazzi, non pensavo di poter diventare professionista. È stata una crescita naturale, con quel po’ di fortuna che serve».

E quali sono state le persone fondamentali in questa crescita?

«Tanti. Ma voglio citare Pippo Inzaghi, Walter Zenga e Aurelio Andreazzoli».

Lei ha vinto l’Europa League, Donnarumma la Champions, entrambi da protagonisti: portieri che parano più che impostare l’azione.

«È per parare che inizi a fare il portiere. La parata di Zoff a Madrid, quelle di Banks, quelle miracolose di Gigio al Villa Park a aprile. La mia su Shaw al 96’ in finale. O la più importante di tutte: quella del “Dibu” Martinez nella finale dei Mondiali. Non sarà stata perfetta, ma grazie a quella che abbiamo potuto vedere Messi con la Coppa del mondo».

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