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Zaccagni eroe per caso, dalla Serie C alla gloria: “Ho tirato senza pensare, sensazione immensa”

I genitori lo iscrissero a scuola calcio solo per salvare i mobili di casa dalle pallonate. All’Europeo ha preso il posto di Orsolini all’ultimo minuto

LIPSIA — Dalla Serie C a Berlino. Forse era destino che a salvare l’Italia del ct contadino fosse un ragazzo che qui, in Germania, non avrebbe dovuto nemmeno esserci. Uno di cui il primo allenatore non dice «l’ho scoperto io», come farebbe chiunque, ma «non avrei mai immaginato arrivasse fino a lì». Mattia Zaccagni a vederlo oggi sembra il perfetto cliché del calciatore: matrimonio eccentrico con influencer – l’evoluzione delle veline dopo l’invasione degli ultrasocial – festa trash per rivelare il sesso del primo figlio, tatuaggi, capello gelatinato, barba curata da testimonial di uno spot tv. E invece Mattia è altro. È l’Italia che viene da lontano. L’incarnazione del vizio italico di aspettare l’ultimo istante stavolta è andata ben oltre l’immaginazione: ha atteso il 98’, l’orizzonte oltre cui non solo non c’è nulla, ma a cui più spesso non si arriva nemmeno. Poi aveva gli occhi lucidi: «Ho tirato senza pensare, è una sensazione immensa, che porterò sempre con me. Abbiamo giocato un grandissimo secondo tempo, Calafiori mi ha dato una gran palla, il pari ce lo siamo meritati. Spalletti è stato bravo a creare questo gruppo, dobbiamo ripagarlo».

Ventidue gol nelle ultime tre stagioni alla Lazio

Bellaria Igea Marina, questa la stazione di partenza della carriera di Mattia. Serie C, solo undici anni fa. Ma non pensate sia l’unico: quei campi pieni di fango, quegli stadi fatiscenti in cui devi essere felice se riporti a casa la pelle senza un graffio o uno sputo, sono la terra in cui hanno radici anche Jorginho e Di Lorenzo, Folurunsho e Gatti, che come Cambiaso e Vicario è andato anche più giù. L’Italia che non è nata bene come i Maldini o i Totti, ma che la scalata se l’è guadagnata a pedate su campi periferici in serate fredde, molto più di quanto non lo sia Lipsia a fine giugno. No, Zaccagni non lo abbiamo visto arrivare eppure avremmo potuto. O dovuto. Ventidue gol nelle ultime tre stagioni alla Lazio, dieci in quella chiusa un anno fa al secondo posto con Sarri in panchina. Eppure quando Spalletti lo ha inserito nel gruppo dei 26 azzurri per la Germania sembrava parlassimo di un imbucato. E con ogni probabilità non sarebbe stato nemmeno nel gruppo senza quell’ultima amichevole. Ancora una volta è da Empoli che è venuta l’idea giusta, a Luciano. Aveva lanciato Orsolini titolare perché dimostrasse di meritare il biglietto già stampato per imbarcarsi destinazione Dortmund. Dopo 45 minuti era diventato coriandoli: è quello il momento in cui Zaccagni ha fatto il check-in: «Corri, c’è ancora posto».

Identico al gol di Del Piero nel 2006

Gol come quello che ha proiettato l’Italia al secondo posto del girone Zaccagni li ha segnati spesso. A Roma ci si ricorda di un derby deciso da una rete quasi identica: scatto sul filo del fuorigioco e diagonale a incrociare, quella volta rasoterra. E quasi identico è il gol con cui Del Piero mise il timbro sul volo per Berlino diciotto anni fa: quello valeva la finale, ma per questa Italia la dimensione non è troppo dissimile. Fa effetto: di Alessandro Del Piero il piccolo Zaccagni aveva il poster in cameretta. L’idolo, il giocatore da emulare: forse non avrebbe immaginato nemmeno lui di farlo in maniera così fedele, addirittura con la stessa maglia azzurra.

L’idolo di Zaccagni è Modric

Volete sapere chi era l’altro idolo di Mattia, una volta cresciuto un po’? Luka Modric. Chissà se su quei campi di Serie C avrebbe immaginato di trovare un giorno il suo nome sul tabellino dei marcatori accanto a quello del croato. Peggio: di essere l’uomo che ne avrebbe chiuso la carriera, almeno in questi tornei. L’ultima Croazia di Modric s’è arresa a Zaccagni.

Tempo fa raccontò che la scuola calcio non fu una scelta, ma una necessità: «I miei mi iscrissero a 5 anni perché a casa rompevo tutto a pallonate: lampade, foto, tutto. Mi ricordo un mobiletto che consideravo a forma di porta e quindi perfetto per giocare. Allora papà mi portò a scuola calcio. Lui e mamma erano disperati, mi svegliavo a ogni ora per vedere partite improbabili. Non vedevo il calcio come un lavoro».

Quelle pallonate oggi sono diventate il salvacondotto per restare aggrappati all’Europeo. Per non dover passare due giorni con la calcolatrice a capire se ogni gol volesse dire sopravvivenza o fine della festa. «Love yourself», dice un tatuaggio che ha sulla gamba, per ricordare l’importanza dell’autostima. Oggi non gli servirebbe più.

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