Al posto dell’orologio, Walter Zenga porta decine di braccialetti. “L’orologio mi serviva quando allenavo, per il resto è inutile. I braccialetti invece scandiscono il tempo dei ricordi. Ognuno ha un significato. Su questo ho scritto unbreakable, indistruttibile. Su quest’altro, remember who the fuck you are, ricordati chi … sei”. Poi ne ho tanti verdi, ma solo perché mi piace il colore. Non è che uno deve spiegare tutto. Ne ho anche uno che mi ricorda la mia vita all’Inter”, dice l’Uomo Ragno, entrato nella squadra dei commentatori di Sky Sport.
Il derby d’Italia che ricorda con più affetto?
“Il primo in Coppa Italia. Parai un rigore a Paolo Rossi. Perdemmo 2-1, ma che emozione a 23 anni difendere la porta del club che tifavo da bambino”.
E la sfida che ancora le toglie il sonno?
“Un pareggio per 1-1, a San Siro. Parai un rigore a Platini, ma la gioia durò un secondo. Michel segnò sulla respinta”.
Si riconosce di più in Sommer o Di Gregorio?
“Sono contrario ai confronti. È un ruolo personale, le somiglianze non esistono, sia nel fisico che nella tecnica”.
Chi vincerà allo Stadium?
“Dopo il ritiro ho provato a giocare qualche schedina, ma non ci prendevo mai e ho smesso di fare pronostici”.
Lei, per lavoro e per amore, ha vissuto in Romania. Cosa consiglierebbe a Chivu, nella sua lingua?
“Vorbesc bine române?te, parlo bene rumeno, mi sono anche convertito alla chiesa ortodossa per sposarmi in chiesa. Quando si prende una squadra, si devono mettere le proprie idee, bisogna cambiare”.
E se non si hanno i giocatori per farlo?
“Si trova una soluzione. Non puoi continuare sulla vecchia strada. Devi metterci del tuo”.
A Tudor, da allenatore, cosa direbbe?
“Niente. Quando allenavo, mi incazzavo con chi mi diceva cosa fare senza sapere i problemi avevamo. Di Chivu parlo solo perché lo conosco”.
Oggi con lo juventino Padovano siete colleghi a Sky. Che effetto le fa?
“In tv il tifo non conta. Già quando giocavo presentavo il programma Forza Italia con Fabio Fazio e Roberta Termali, e non ero lì a fare l’interista. Registravamo giovedì sera, andavamo in replica il sabato. Se domenica prendevo gol, i tifosi dicevano: “Per forza, va in tv il sabato …”
Eppure alla tv non ha mai rinunciato …
“Un professionista, se fa bene il suo lavoro, deve percorrere anche altre strade, per sentirsi vivo. Il calcio finisce. Non tutti possono diventare allenatori o direttori sportivi”.
Giocare, allenare, commentare in tv. Le ha provate tutte.
“Ho fatto il raccattapalle, il portiere, le pubbliche relazioni per l’Inter, l’allenatore in tanti Paesi, il direttore tecnico in Indonesia, il brand ambassador a Siracusa. Tutto tranne il panchinaro. L’ho fatto solo per qualche mese a Bordon”.
Il lavoro più bello?
“Allenare. È più stressante, a volte vorresti spararti. Ma l’adrenalina è incredibile. Sei sul divano la sera, ti viene un’idea, apri il computer, chiami i tuoi assistenti. Stupendo”.
L’esperienza più negativa?
“A Siracusa, per via del presidente che per sei mesi non mi ha pagato lo stipendio”.
Si ispira a qualcuno, davanti alla telecamera?
“A nessuno. Non mi preparo troppo, non mi imposto. Mi aggiorno, vedo le partite, ma per il resto sono me stesso. Oggi fra radio, Twich, tv, social, ognuno può dire la sua. Ascolto, guardo, rispetto. Se non mi piace, cambio canale”.
Con Varriale vi siete mai chiariti, dopo il famoso scontro in diretta?
“Non voglio parlarne”.
Per un periodo ha provato a fare televendite. Quanto le mancava per raggiungere il maestro Giorgio Mastrota?
“Il maestro è inarrivabile, ma dirigere per un anno un ufficio vendita dell’aspirapolvere Kirby, parlare coi clienti, assumere collaboratori, mi ha aiutato a capire le persone”.
Ha scritto tre autobiografie. Basta così o ha un quarto libro nel cassetto?
“Sarà un romanzo. Nella mia testa esiste già. Il tema è sempre la mia vita. Saranno almeno 400 pagine, raccontate in prima persona”.
Oltre a scrivere, legge molto?
“Sono fissato con Murakami, amo i thriller di Franck Thilliez, ho letto tutto Don Winslow, mi piace Gianluca Gotto. Sul comodino ho quattro libri aperti, uno è un saggio sul potere della mente”.
Lei oggi è innamorato?
“Di me stesso”.
Donne?
“Di mia figlia Samira. Ha quindici anni, è la donna più importante della mia vita, anche più di mia mamma”.
Delle sue ex, è ancora legato a qualcuna?
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, non voglio casini. È difficile tenere i rapporti quando ci si è amati”.
Per correre a dare un bacio in tribuna a Hoara Borselli, negli Stati Uniti, rischiò di prendere gol …
“Avevamo segnato, il gioco era fermo, non avrei mai lasciato la porta sguarnita. Tornai di corsa, in tempo per la ripresa. Hoara era vicina alla porta anche il giorno della mia partita d’addio a San Siro. Avevamo le nostre abitudini”.
Il soprannome “Uomo ragno” com’è nato?
“Ero stato escluso dalla Nazionale. I giornalisti, fuori dagli spogliatoi, mi chiesero dell’esclusione, io cantai “hanno ucciso l’Uomo Ragno, chi sia stato non si sa, forse Sacchi, Matarrese, Carmignani, chi lo sa”, sulle note degli 883.
Ne ha mai parlato con Max Pezzali, grande interista?
“Subito. Penso di avere contribuito al successo della canzone. Mauro Repetto era spesso con Max ma stava in disparte, come sul palco”.
Per Gianni Brera, lei era “il deltaplano”.
“Ne vado fiero. Il soprannome di Brera è una consacrazione. Lo incontravo in una trattoria vicino alla Rai, in corso Sempione a Milano. Un uomo eccezionale”.
Qual era il suo supereroe preferito da bambino?
“I grandi portieri. Vieri, Bordon. Silvano Martina si presentò al campo d’allenamento delle giovanili dell’Inter, per me era come avere lì dio sceso in terra”.
Due dei suoi cinque figli hanno fatto i calciatori. Pensa di essere stato il loro idolo?
“Non l’ho mai vista così. Amo i miei figli, ho tutti i loro nomi tatuati sull’avambraccio sinistro. Ma mi sono separato due volte. La vita mi ha portato negli Stati Uniti, in Romania, in oriente. Vederli era complicato, prendevo voli di dieci ore per stare insieme mezza giornata fra auto a noleggio e treni. Un casino”.
È un nonno presente, con i suoi due nipoti?
“Li vedo poco, io sono sempre in giro, i tempi non coincidono. Coltivare gli affetti è complicato. Con mio padre, i rapporti li teneva mio fratello. Quando è morto, mi ha scritto una lettera”.
Ha il rimpianto di non avere potuto rispondergli?
“Non ho risposto alla lettera, ma sono riuscito a salutarlo. Allenavo lo Steaua. Quando mio fratello mi disse che papà era alla fine, volai a Milano. In clinica, papà tolse la maschera dell’ossigeno, mi disse che era orgoglioso di me, poi chiese di potere riposare in pace. La mattina dopo non c’era più”.
Tornando indietro, c’è qualcosa che non rifarebbe?
“Così è troppo facile. Mi prendo tutte le responsabilità. La gente parla di me, ma non parla con me, altrimenti mi capirebbe”.
Il momento più bello della sua vita?
“Questa intervista. Se a 65 anni c’è ancora chi ha voglia di ascoltarmi, significa che qualcosa ho costruito. E ringrazio Sky, che mi dà ancora la possibilità di essere visibile”.
Come vive questa nuova avventura?
“Benissimo, anche se mi piacerebbe fare di più. Quando sono davanti alla tv, penso: questa trasmissione potrei condurla io. Nel 1984 con Emilio Bianchi conducevo un programma su Telereporter. Una volta, di ritorno dagli studi di registrazione, per fare in fretta mi presentai alla Pinetina in sella a con una Bmw K100, ed era ovviamente vietato. Un finimondo”.
Va ancora in moto?
“No, ma per una vita ho girato in Harley. Quando giocavo, ero l’unico scemo di Milano col casco. Così non mi si riconosceva, pensavo. Invece, proprio perché lo avevo, mi riconoscevano tutti”.
Milano a parte, un giramondo come lei dove si sente a casa?
“Dubai. Ci vivo dal 2007. Lì sono tranquillo a sapere che i miei figli sono in giro da soli la sera. Fossimo a Milano, andrei a prenderli in discoteca col carro armato”.
Sui social prima di Italia-Israele ha pubblicato appelli per la Palestina libera.
“Ci credo profondamente, e non voglio banalizzare la questione in tre parole, riducendo tutto all’opportunità o meno che l’Italia scendesse in campo”.
Lei è stato uno dei primi europei ad andare all’Al-Nassr, in Arabia.
“C’erano quattro stranieri per squadra. Ma le strutture erano già fantastiche. Non è una bolla, è una crescita costante. Lo stesso vale per la Turchia, hanno stadi che noi ci sogniamo”.
Catania e Palermo. A quale delle due capitali della Sicilia è più legato?
“Amo entrambe, mia figlia è nata in Sicilia, e non capisco perché i catanesi dovrebbero essere arrabbiati per il mio passaggio a Palermo. A Catania ho fatto bene.”.
Lei, Berti, Serena. Vi siete divertiti anche fuori dal campo. Con smartphone e social network, sarebbe stato possibile?
“Aldo e Nicola si divertivano anche più di me. Era un altro mondo, un’altra Milano. Ho letto con dolore che è chiusa la discoteca Plastic. Oggi per uscire i calciatori devono chiudersi nei privé, noi eravamo in mezzo alla gente”.
Sogna ancora di arrivare sulla panchina dell’Inter?
“No, di sogni non ne ho più, vivo nel presente”.
Chi vince il campionato quest’anno?
“Se vivo nel presente, come faccio a dirlo?”.