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La vita breve dei talenti italiani. Ecco chi brucia la meglio gioventù del calcio

Nel 2008 l’under 19 azzurra arrivò in finale al campionato europeo. Guardate chi c’era in quella formazione e chi, tra loro, ha fatto carriera. Massimo Oddo, ex calciatore ora allenatore, ci guida alla ricerca dei colpevoli della grande crisi del football

Duecentosessantasei match in Serie A. Non male, in fondo, i numeri della linea difensiva a quattro dell’Italia che nel campionato europeo Under 19 del 2008 arrivò in finale, il 26 luglio, perdendo 3-1 con la Germania. Due terzini scuola Milan, Matteo Darmian e Matteo Bruscagnin, un centrale dell’Atalanta, Matteo Gentili, l’altro cresciuto nella Fiorentina, Massimiliano Tagliani, capitano di quella formazione. Una statistica che però può far da contorno a un quanto mai indigesto pollo di Trilussa: perché a quota 266 ci è arrivato, da solo, Darmian, che peraltro avrebbe fatto anche meglio, non avesse giocato per quattro stagioni nel Manchester United. Gentili, Tagliani e Bruscagnin in Serie A non hanno mai esordito. Mentre ci ha giocato per poco più di venti minuti, due spezzoni di partita in tutto, Silvano Raggio Garibaldi, centrocampista delle giovanili del Genoa, che segnò l’unico gol azzurro in quel match con i tedeschi e fu inserito dall’Uefa nella lista dei dieci migliori calciatori del torneo, ospitato dalla Repubblica Ceca.

Sedici anni dopo, la fotografia d’inizio partita di quella nazionale si strappa a metà. Con Darmian rimangono Stefano Okaka (178 apparizioni in A), il compagno d’attacco Andrea Paloschi (269) e il centrocampista Andrea Poli (300), a cui subentrò nella ripresa Giacomo Bonaventura (380). Dall’altra parte i sette compagni d’avventura, che si sono divisi tra loro 88 presenze nel nostro massimo campionato. Promesse non mantenute? Talento sprecato? Un sistema che ostacola i giovani, invece di aiutarli?

Domande che fanno da sottofondo al fallimento azzurro negli Europei di Germania, vinti dalla Spagna che ha messo in vetrina la classe purissima di Lamine Yamal (17 anni) e di Nico Williams (22). “Il talento c’è stato, c’è e sempre ci sarà, in Italia: le nazionali giovanili azzurre sono molto forti. Ma da solo il talento non basta: va coltivato e il nostro sistema invece non è capace di farlo”. Campione del mondo nel 2006, Massimo Oddo è cresciuto nel Milan, dove ha poi giocato anche in prima squadra, e ha allenato centinaia di giovani tra A, B e C. Le sue parole analizzano tutti i motivi della crisi che avvolge il nostro pallone.

GLI ALLENATORI

“Sui social si trovano migliaia di video di tecnici dei settori giovanili, che formano 13, 14,15enni e che postano la partenza dal basso, la difesa a zona, le risalite, gli elastici: questa è la rovina del calcio. Invece di migliorare il singolo giocatore in un’età cruciale, si pensa alla squadra, come se si trattasse di professionisti. Gli allenatori a quei livelli dovrebbero essere costruttori di individualità, capaci di accompagnare la crescita prima di tutto tecnica e poi anche tattica dei calciatori, esaltandone le potenzialità. Risultato: chi arriva in prima squadra non è pronto. In questi anni passati in panchina ho fatto giocare da subito soltanto un ragazzo delle giovanili: è successo a Pescara con Lucas Torreira (centrocampista uruguaiano, ora in Turchia, al Galatasaray, ndr). Anche Daniele Verde, che veniva dalla Roma ed era un grande talento, ha impiegato qualche mese per capire il calcio dei grandi”.

I PROCURATORI

“Avevo 19 anni ma lo ricordo ancora come se fosse oggi. Ho ricevuto una telefonata da Ariedo Braida, direttore sportivo del Milan, dove avevo giocato due anni nelle giovanili: ‘Nella prossima stagione vai al Fiorenzuola, in Serie C1’. E poi ha riattaccato. Non c’era un procuratore al mio fianco a dirmi no, aspetta, ti piazzo di qua o di là. Ovviamente ce ne sono tanti che tutelano i ragazzi e pensano alle loro carriere. Ma altri, pur di avere un loro calciatore in un contesto prestigioso come la Serie B invece che in C o guadagnare un po’ di più con le commissioni, indirizzano i loro assistiti in contesti in cui perdono soltanto tempo. La Serie B è durissima, un giovane impiega almeno sei o sette mesi per mettersi in pari: tutto tempo sprecato. Anche per questo i nostri talenti frequentemente si perdono a quell’età”.

LE SOCIETÀ

“I comportamenti delle società spesso non sono coerenti. A volte le squadre al top, quelle con i vivai migliori, si tengono i più forti, invece di mandarli in giro a fare esperienza. Magari perché vogliono essere competitive e non fare figuracce nella Youth League, la Champions dei giovani. Ma così bloccano la crescita di questi ragazzi, che nei campionati Primavera incontrano i loro coetanei, spesso di qualità inferiore. In Serie C, invece, ti trovi di fronte avversari pieni di malizia, di scaltrezza, che hanno la fame di portare a casa lo stipendio a fine mese. Ora, per fortuna, le cose stanno cambiando con le seconde squadre, che giocano in C. Non è un caso se negli ultimi due campionati a quel livello Juventus e Atalanta hanno trovato difficoltà nel girone d’andata, ma poi sono andate ai play-off grazie alle rimonte nei gironi di ritorno: all’inizio hanno preso gol per errori individuali, nelle marcature o sui calci da fermo; poi, però, i giovani sono cresciuti e hanno imparato la lezione, mostrando il loro valore: questa deve essere la strada”.

I PRESIDENTI E I TIFOSI

“Tra Serie A, B e C nella scorsa stagione ci sono stati ottanta esoneri. Il nostro calcio è troppo condizionato dai risultati immediati: se un tecnico perde cinque partite, perde anche il posto. E allora capisco chi dice: ‘Che mi frega di far giocare i giovani, vado sul sicuro, mi affido a chi ha esperienza’. Perché i ragazzi bisogna aspettarli, accettare i loro errori, sapere che dopo un mese ottimo ce ne sarà un altro più complicato. E qui hanno colpe anche i tifosi. Tanti scrivono post di protesta: ‘Solo in Italia non facciamo giocare i ragazzi’, ma magari sono gli stessi che si lamentano quando uno di loro sbaglia sotto porta, perché da noi nessuno ha pazienza. Ora si parla tanto del milanista Camarda. Non lo conosco bene e gli auguro un gran futuro, ma credo che certi paragoni importanti non gli facciano bene. Ho visto tanti Camarda che poi sono spariti dal grande calcio. Per me deve allenarsi con la prima squadra e giocare con Under 23, dove farà fatica a prendere la palla all’inizio. Magari invece esplode all’improvviso e rimane subito in A, ma casi come quelli – i Maldini, i Totti, i Nesta – sono l’eccezione, non la regola. Io conosco bene San Siro, è uno stadio molto esigente, può esaltarti ma anche farti del male”.

L’ESTERO

“Nel 2008/2009 ero al Bayern Monaco. In rosa c’erano venti calciatori di movimento più cinque giovani aggregati: Badstuber, Kroos, Contento, Alaba e Mueller, che giocavano stabilmente nella squadra B (all’epoca in Germania già esistevano, pensa te). Una doppia esperienza che li ha formati presto e bene: l’anno dopo, nel 2010, due di loro, Badstuber e Mueller, sono stati titolari nella finale di Champions che il Bayern ha perso con l’Inter”.

GLI STRANIERI E I GENITORI

“Una volta in Italia gli stranieri si chiamavano Maradona, Platini, Van Basten. Ora arriva veramente chiunque, soltanto perché costa meno. E inevitabilmente toglie spazio e chances ai nostri giovani. Anche se sono convinto che chi è veramente forte comunque riesce a farcela. Magari nonostante i genitori, che condizionano con pressioni e ossessioni. Un atteggiamento pessimo. Ma niente scuse: era così anche venti anni fa, quando dominavamo e diventavamo campioni del mondo”.

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